Global Trends & Security Politica internazionale e Sicurezza, di Germana Tappero Merlo
  • Home
  • Geopolitica & Sicurezza
  • Middle East & North Africa
  • AFRICA
  • ASIA
  • TERRORISMO & JIHAD
  • Estremismo violento
  • Intelligence & Cyber
Home » Geopolitica & Sicurezza » Stai Uniti, il prezzo umano della fede nelle armi, 27/11/2022
stampa pagina
  • <<
  • >>
 

Stai Uniti, il prezzo umano della fede nelle armi, 27/11/2022

Stai Uniti, il prezzo umano della fede nelle armi, 27/11/2022 - Global Trends & Security

Ancora una strage per armi in questi giorni negli Stati Uniti. Le immagini di disperazione, il rammarico dello sceriffo e del politico di turno per la mancata sicurezza, i laconici commenti dei media circa l’ennesima sparatoria e l’indignata reazione di parte, poca comunque, dell’opinione pubblica circa le “troppe armi” in circolazione in quel Paese, compongono da anni un tragico copione visto innumerevoli volte da apparire come un noioso sequel di un dozzinale poliziesco. Così tante volte, molte di più di quelle che fanno notizia anche qui da noi, da intorpidire la reazione dell’osservatore, e non solo americano, come a banalizzare quel male. È più che assuefazione. È come se il pubblico avesse autoprodotto una sorta di anestetico verso il dolore che quei fatti americani arrecano; un dolore a tempo, perché all’indomani del fattaccio, questo va archiviato nel database di crimini violenti, dalle cause più svariate, a volte nemmeno più cercate o giustificate, e che spaziano dal razzismo alla rabbia, alla rivalsa personale, dalla malattia mentale all’estremismo ideologico. Se ne rimane memoria, è solo più nelle carte dei tribunali di fronte ai quali, e nemmeno sempre, compare il colpevole. Inoltre, ogni anno più di 100mila americani vengono “solo” feriti da armi da fuoco: non muoiono, certo, ma le sofferenze di chi è stato coinvolto durano sovente l’intera vita, fra ferite fisiche e quelle mentali, dallo stress post traumatico ai sensi di colpa per essere stato risparmiato alla morte, perché, sì, c’è anche questo irragionevole dolore. 

Secondo il Gun Violence Archive, che da anni studia incidenti e crimini collegati all’uso delle armi negli Stati Uniti, nel solo 2022, ad oggi, sono state almeno 606 le sparatorie di grado elevato, con più di quattro morti o feriti, a fronte delle 692 del 2021. La dicitura esatta, stando alla legge americana, con così numerose vittime, è di mass-shooting; ma ci sono innumerevoli altri episodi che non rientrano in quel conteggio, come quei singoli soggetti assassinati in liti fra vicini, in risse, per femminicidio, o quelli uccisi per errore o, peggio, per difetto dell’arma. E per quest’ultima ragione vi sono già state numerose vittime, anche perché, stando alle leggi federali, l’arma del privato è l’unico prodotto che negli Stati Uniti non può essere ritirato dal mercato in caso di vizi di fabbricazione, se non dopo estenuanti, costosissime, temerarie class action, raramente di successo.

È la potente influenza della National Rifle Association, NRA, troppo genericamente definita “la lobby delle armi” e tirata in ballo ogni qualvolta si parla di regolamentare l’uso delle armi da fuoco, e che di fatto, almeno dal 1980, da quando decise di sostenere ufficialmente R. Reagan come candidato alla Casa Bianca, e vinse, fa più politica vera che associazionismo fra cacciatori, com’era intesa anche solo fino al decennio prima. Proprio dall’esperienza con Reagan, l’NRA iniziò infatti ad assegnare una sorta di rating ad ogni candidato alla Presidenza sulla base della posizione personale sulle armi. E l’autorevolezza politica della NRA crebbe a tal punto che già nel decennio successivo, con Clinton, le sue sovvenzioni furono decisive nel dare ai repubblicani la maggioranza al Congresso, così come, nel 2000, un terzo di tutto il denaro speso dai gruppi indipendenti a sostegno di G.W. Bush portava il marchio NRA. Una potenza politica, che è più di un ristretto circolo lobbistico economico e finanziario, e che si concentra soprattutto nel partito repubblicano. 

Tuttavia, proprio in seguito alla strage di Uvalde, in Texas, il 24 maggio scorso, con il massacro di 19 bambini, un accordo bipartisan fra Democratici e Repubblicani ha permesso all’amministrazione Biden il varo di una legge per la regolamentazione sull’accesso, vendita e uso delle armi (fra i quali divieto di possesso di quelle d’assalto e di vendita di fucili semiautomatici a minori di 21 anni), come pure le c.d. red flag laws, che permettono alle autorità di ogni Stato  di confiscare – fatto eccezionalissimo prima –  anche se  temporaneamente, armi  a persone considerate pericolose. Così come la clausola boyfriend loophole, all’incirca “la scappatoia del fidanzato”, che prevede che venga negato l’acquisto o  il possesso di armi a soggetti già rei di violenze domestiche che non siano solo i coniugi regolari, come contemplato sino a pochi mesi fa, ma anche soli conviventi o genitore, non sposato e non convivente, di figli della vittima di violenze domestiche. Ma le leggi al riguardo variano anche da Stato a Stato e la levata di scudi, con il richiamo al “sacro ed inalienabile diritto” ad armarsi, garantito dal Secondo Emendamento, è costante e pervasiva. Così, il provvedimento di Biden è arrivato nella stessa settimana in cui la Corte Suprema, rifacendosi a quell’Emendamento, annullava una legge dello Stato di New York che limitava la circolazione di armi da fuoco fuori casa. Questo perché l’intera questione è molto più del business e dell’influenza politica della NRA. È l’eccezionalismo della storia americana, l’American exceptionalism nel senso buono, generato dai fatti.

A differenza dell’Europa dove lo Stato si impossessò del monopolio dell’esercizio esclusivo della forza molto tempo prima della nascita dei primi regimi democratici, negli Stati Uniti è accaduto il contrario: il popolo se ne appropriò, e per lungo tempo, prima ancora della comparsa della democrazia e i suoi tradizionali patti sociali. Ecco perché armarsi è prima di tutto una memoria collettiva e solo dopo un diritto costituzionale garantito ad ogni cittadino americano, con una battaglia per il suo rispetto che è soprattutto culturale, con forti radici nella più antica tradizione popolare dell’individualismo e del self-made man anche nei riguardi della propria sicurezza, con richiami ad una ritualità famigliare che non ha eguali nel mondo occidentale e liberale.

Gli Usa sono di fatto il Paese con più armi lecite in circolazione, anche se a possederle è solo un terzo degli americani. Chi le possiede, però, difficilmente si limita ad averne solo una, tanto che ormai, anche se pare paradossale e sebbene si registri un aumento del numero di armi, di fatto, vi è una diminuzione del numero di possessori. Sovente, poi, vengono acquistate anche se non si sa come utilizzare. Ma perché? La risposta sovente è che il possedere un’arma equivale ad una dichiarazione di identità: è appartenenza a una comunità, quella stessa che condivide la storia della conquista dei grandi spazi e dei grandi rischi, per la natura selvaggia e per il desiderio di dominio sulla terra, anche se di altri e, per questo motivo, difesa con la violenza. Ma se si scava più a fondo, non bastano queste giustificazioni e si comprende che, di fatto, il possesso dell’arma è una sorta di “garanzia sociale di equilibrio”, “un diritto inalienabile” del cittadino americano. Quel cittadino che, da sempre, memore dei vincoli delle potenze coloniali, ritiene che una popolazione armata sia la migliore garanzia a protezione della democrazia contro ogni tentazione tirannica dei propri leader. Sono risposte colme di quello che R. Hofstadter ha definito “lo stile paranoide” dell’americano,  che vive, da sempre la percezione di una sorta di rischio apocalittico, l’Armageddon, la paura costante del collasso imminente  della nazione, il timore di una cospirazione, di un attacco esterno da parte di nemici  della propria comunità, non necessariamente una nazione straniera ma anche solo “gente diversa”: l’ex schiavo nero un tempo, il musulmano e il migrante ispanoamericano oggi, l’ebreo da sempre. In pratica, coloro che non rispettano valori e credo tipici dell’American way of life che, negli ultimi anni, è più di uno slogan, è vera fede. Non è un caso che la mappa dei grandi possessori di armi li collochi nei cosiddetti “Stati terra”, quelli centrali, a maggioranza non solo conservatrice, repubblicana e a tratti trumpiana, per limitarsi a categorie politiche, ma dove e da sempre, proprio per cultura e tradizione, è più forte la sfiducia nelle istituzioni federali a favore di quelle locali, soprattutto per la difesa del buon cittadino americano. 

È quella parte di nazione dove è più forte l’esperienza del movimento che fu dei c.d. Posse Comitatus, ossia la possibilità, prevista dal 1878, da quando venne impedito l’uso della forza militare in operazioni di polizia sul territorio, che lo sceriffo di contea nomini e organizzi squadre di civili armati per la gestione dell’ordine pubblico, in momenti di crisi o di emergenza. Bisogni immediati, quindi, che nel tempo hanno assunto i contorni della più moderna paura contro le congiure ordite dai nemici della Patria americana, dei valori sacri quali la famiglia tradizionale e la razza bianca, e dove le armi sono garanzia di distruzione anche fisica di quei mali. Sono la salvezza anche contro chi si è reso responsabile del “furto di voti” di trumpiana memoria e quindi contro un potere politico federale che sembra comprimere la libertà dei singoli Stati ad emanare leggi proprie, impedendo una giusta sicurezza ai propri cittadini. Là dove, in pratica, ha più peso politico lo Sceriffo di contea che il Presidente degli Usa. La stessa cultura di autodifesa che, alla fine degli anni Settanta, diede il via al survivalismo, quella serie di iniziative pratiche (le armi), protettive (cibo e rifugi), economiche e di addestramento dettate dalla sfiducia nelle istituzioni e nella delega ad esse, e che ora, in tempi a noi più vicini, si esprime nella formazione di milizie armate, dagli Oath Keepers, Patriots e parecchie altre, poi protagoniste, con anche tanti singoli individui, dell’attacco a Capitol Hill il 6 gennaio 2021. 

E poi vi sono la tradizione e il rito; perché quando in quella parte degli Stati Uniti si affronta il tema “armi”, il discorso scivola inevitabilmente sui ricordi circa una tradizione famigliare di regalare un’arma per le più disparate ricorrenze; oppure quella, quasi un culto, della caccia, da cui il desiderio di tramandare passione, fucili e pistole ai propri figli e ai nipoti. Il rito, invece, deriva direttamente da quelle predicazioni cristiane di stampo fondamentalista che, sempre dagli anni di Reagan in poi, vedono impegnati in prima linea gli Usa, per un loro destino manifesto, in una lotta messianica contro il Male, anche nell’intero mondo, e che predicano “verrà il momento di dover difendere Dio e i suoi diritti e non potremo trovarci allora senza armi”[1]. Ecco perché non è la Costituzione ma direttamente Dio che conferisce al cittadino americano il diritto, anzi no, il sacro dovere del possesso e dell’uso delle armi. È parte di un suo destino, come l’essere un prescelto, e che contempla anche il piangere spesso le vittime innocenti di stragi per noi, europei, senza alcun senso.



[1] F. Colombo, Il Dio d’America. Religione e politica in USA, Torino 2014, pp. 16-17.

 

Foto: G. Galimberti, Ameriguns.

La Porta di Vetro, Editoriale della domenica

Chi sono

Chi sono - Global Trends & Security

Analista di politica e sicurezza internazionale, opero attualmente presso enti privati in Israele, Giordania, Stati Uniti e Venezuela. Ho svolto attività di consulenza sul terrorismo per organismi governativi e privati in Libano, Siria, Iraq, Afghanistan, Somalia, Egitto, Sudan, Etiopia, Eritrea, Libia, Tunisia, Niger, Messico e Brasile.

Chi sono - Global Trends & Security

18 febbraio 2022. Uscita del mio volume "Dalla paura all'odio. Terrorismo, estremismo e cospirazionismo", Tangram Edizioni Scientifiche. Trento. " Il volume è il risultato di analisi e operatività sul campo che l’autrice ha condotto negli ultimi due anni circa fenomeni globali legati all’eversione e al terrorismo, sia di matrice islamista jihadista che dell’ultradestra violenta. Vengono analizzati soggetti e dottrine in un contesto di evoluzione delle relazioni internazionali e dei nuovi conflitti ibridi e identitari, in cui il terrorismo è tattica dominante. Sono inoltre delineati i processi, personali e collettivi, di radicalizzazione sia religiosa che politica, da cui derivano educazione e cultura alla violenza. Queste ultime acquisiscono un ampio pubblico attraverso la rete internet, anche nei suoi meandri più oscuri e tramite forme di comunicazione, qui analizzate, che trovano ampio utilizzo da parte delle nuove generazioni di nativi digitali. A ciò si sono aggiunti i toni aggressivi delle più recenti narrazioni cospirazioniste, originate sia da eventi interni a Stati democratici occidentali che da quelli emergenziali da pandemia. A vent’anni dalla paura del terrore proprio dell’11 settembre 2001, si sta procedendo velocemente, quindi, verso un livore generalizzato, a tratti vero e proprio odio, da cui una cultura di violenza politica dai legami transnazionali e che mira all’eversione, con i relativi rischi per la sicurezza nazionale."

  • 29/01/2023 06:40 am
  • Nº pagine viste 381803
© Copyright  2023 Global Trends & Security. All rights reserved. |