L’Egitto di Abdel Fattah al-Sisi, il generale che in abiti civili sta governando nell’era dopo-Morsi e dei Fratelli Musulmani, sta riscoprendo quella sua periferia così strategica ma da troppo tempo abbandonata che è la Penisola del Sinai, ossia un’ampia area desertica da decenni in mano alle tribù beduine e, lungo le sue coste, alle multinazionali del turismo. Non è ormai più una novità che, dopo il 2011 e in vaste sue zone, al controllo delle prime siano subentrati gruppi jihadisti dalle varie sigle e innumerevoli provenienze che utilizzano quella regione, in parte come santuario per le loro attività addestrative e di riposo e, in parte, per i loro lucrosi traffici illeciti con buona dose di azioni violente contro civili inermi.
Se l’Egitto post Mubarak e Morsi ha opportunità di ripresa economica, sviluppo industriale e, quindi, di intraprendere un percorso verso la stabilità politica e sociale e un vero processo democratico, questi passano attraverso la messa in sicurezza, oltre ai suoi confini con Libia e Sudan, anche del suo territorio del Sinai e del massimo sfruttamento del Canale di Suez che lo delimita a ovest.
Tuttavia, vi sono enormi ostacoli, da cui non sono estranei fattori come l’ISIS e altri gruppi jihadisti. Ciò è emerso anche pubblicamente dalle parole dello stesso al-Sisi, nel suo primo discorso all’Assemblea Generale delle Nazioni Unite, il 24 settembre scorso, in cui annunciava il nuovo corso per l’economia del “nuovo Egitto”, partendo dalla lotta contro la minaccia terroristica interna. Il suo messaggio era anche la risposta a un’attitudine piuttosto diffusa presso la diplomazia occidentale presente in Egitto a mostrarsi restia ad incoraggiare i propri connazionali ad impegnare capitali in quel Paese, non essendo ancora posto in sicurezza e senza garanzie di stabilità politica interna.
Sebbene il Sinai sia sempre stato testimone di intensa attività spirituale aggregativa con la nascita, la crescita e il proselitismo di gruppi religiosi, dai sufi ai Fratelli Musulmani fino alla istituzione anche di formazioni estreme, ossia combattenti il jihad – è in questa regione che negli anni ’70 nasce la al-Gama’at al-Islamyya ed ha inizio la collaborazione fra militanti egiziani e quelli palestinesi di Gaza - così come pure di gruppi laici come Hamas, la sua sicurezza è, però, andata fortemente deteriorandosi negli ultimi anni. Ciò è avvenuto, in particolare, dopo l’11 settembre con la comparsa di al-Qaeda e dell’egiziano al-Zawahiri a fianco di Osama Bin Laden, che hanno dato ulteriore impulso alle spinte rivoluzionarie e terroristiche di numerosi elementi presenti nelle comunità della penisola. Con la fine del regime di Mubarak e l’alternanza di governi, fra rivolte, dilagante instabilità e, soprattutto, dura opposizione alla Fratellanza Mussulmana (FM), la situazione è andata peggiorando.
L’entroterra del Sinai è, infatti, oramai alla mercé di terroristi che si sono resi responsabili di innumerevoli e disparati crimini, dal rapimento di malcapitati turisti, attentati contro infrastrutture, come i gasdotti, ad assalti contro postazioni militari, come è accaduto il 24 ottobre scorso, al checkpoint di Karam al-Qawadis, nel distretto di Sheikh Zuid - con 33 militari uccisi e 26 feriti - e, prima ancora, con lo sgozzamento di egiziani accusati di collaborare con Israele per la ormai nota questione dei tunnel che dal Sinai arrivano sin sotto le case di Gaza.
L’attacco a fine ottobre a Karam al-Qawadis seguiva di pochi giorni un altro compiuto al Cairo con esplosivi fatti deflagrare a distanza, creando così sconcerto e preoccupazione circa la sicurezza di una città così affollata. Questi attentati hanno rafforzato l’ opposizione pubblica alla FM - da cui secondo l’opinione più diffusa, proverrebbero i gruppi jihadisti responsabili di quelle violenze - e al suo fallimentare progetto di Islam politico, tanto da far auspicare alla grande maggioranza degli egiziani l’immediata esecuzione dei suoi leader ora in carcere.
Quei fatti hanno altresì allertato al-Sisi per un’emergenza di sicurezza e di difesa del Sinai di fronte ad un vero e proprio rischio di aperta insurrezione della regione contro il governo centrale e la compromissione del futuro rilancio economico del Paese. Il Sinai, infatti, non solo rappresenta la parte più esposta di tutto il territorio nazionale ai condizionamenti dei conflitti in atto nel Medio Oriente, ma in essa confluiscono ingenti interessi economici legati ai progetti di sviluppo industriale, che da mesi si stanno profilando proprio per quella Penisola e per il Canale di Suez che la divide dal resto dell’Egitto.
L’allerta del Cairo, infatti, va ben oltre i violenti attacchi del 24 ottobre. I suoi responsabili sarebbero soggetti affiliati al gruppo Ansar al Bayit al-Maqdis, ex qaedista e ora, per stessa ammissione del suo capo Abu Osama al-Masri, fiancheggiatore dell’ISIS e che, già nell’ agosto scorso, aveva aderito al progetto del Califfato di al-Bagdadi. Gli attentatori, non identificabili nelle liste egiziane di jihadisti sospetti, si ipotizza siano entrati in Egitto da Gaza con l’appoggio di elementi palestinesi, in particolare le Brigate Izzadin al-Qassam, che li avrebbero aiutati altresì negli attacchi, assistendoli nella pianificazione, finanziamento e fornitura di armi.
Come è stato ampiamente appurato, gli appartenenti ad Ansar al Bayit al-Maqdis – fra i più attivi nella regione egiziana con il Majlis Shura el-Mujaheddin - già negli anni passati, hanno ricevuto addestramento proprio a Gaza dai salafiti del Jaish al-Islam di Mumtaz Durmush.
L’attività stessa di Ansar al Bayit al-Maqdis, fino al 2012, si era concentrata nell’attaccare gli interessi di Israele nel Negev e ad Eilat, soprattutto nel sabotare, con il supporto di terroristi palestinesi, i gasdotti che dall’Egitto riforniscono la nazione ebraica, arrecando gravi danni economici ma mai spargimento di sangue. Ciò, secondo alcuni analisti, sarebbe avvenuto come risposta all’invito di al-Zawahiri e, quindi, di al-Qaeda, di combattere il jihad contro Israele e l’Occidente, aggredendoli là dove maggiori sono i loro interessi economici e finanziari, al fine di destabilizzarne i mercati, indebolirne l’attività produttiva e alimentando, quindi, il caos sociale.
Tuttavia, dopo la proclamazione dello Stato Islamico e l’avanzata dell’ISIS sui fronti di guerra iracheno e siriano, l’azione del gruppo Ansar al Bayit al-Maqdis nel Sinai ha assunto una piega ben più radicale e soprattutto sanguinaria, non solo per i numerosi attentati alle postazioni militari, ma anche per via dello sgozzamento di civili egiziani accusati di collaborazionismo con Israele. Questi eventi, sempre ripresi con videocamere e postati sul web, non hanno avuto in Occidente l’eco mediatica dell’uccisione da parte dell’ISIS dei cittadini americani ed inglesi, a dimostrazione di come l’interesse per la minaccia jihadista sia indirizzato ad hoc verso aree specifiche e risenta dei forti condizionamenti di cui sono oggetto i mass media. Lo stesso accade per quanto sta avvenendo in Libia o sui monti Chaambi tunisini o nella giungla filippina, dove la provocazione jihadista risente fortemente dell’influenza irachena e siriana dell’ISIS, ma di cui non si ha adeguata copertura e informazione da parte del media occidentali.
Secondo fonti di intelligence egiziane, gli attentatori del 24 ottobre, fuggiti dopo i misfatti, avrebbero trovato rifugio presso i villaggi delle zone montagnose del Sinai a forte presenza salafita (Al-Kharuba, Abul-Eraj, Abu Lufaita e Al-Jami), e godendone, quindi, della protezione.
Ciò che sta preoccupando maggiormente al-Sisi è, quindi, il rischio di infiltrazione di elementi pro-ISIS in Egitto, al chiaro scopo di destabilizzare il Paese con la destituzione dell’attuale governo, anche attraverso il costante uso dei tunnel fra Sinai e Gaza da parte di costoro, e non solo delle frange più radicali di Hamas – sempre alleata dei FM – alimentando ulteriormente la tensione con Israele. Proprio Hamas, infatti, sarebbe stata accusata per prima di essere responsabile degli attentati, tranne poi individuare altri autori.
Secondo alcuni osservatori, ciò dimostrerebbe l’intenzione del governo di al-Sisi di collegare il più sanguinario terrorismo jihadista con i FM e le loro derivazioni, come appunto Hamas, senza avere però alcuna prova. Se anche fosse il risultato di una manovra propagandista di al-Sisi contro i FM, ciò che è ormai evidente è il fatto che dal Sinai a Gaza sta emergendo una sottocultura salafita-jihadista dalle varie sigle e dai numerosi componenti di difficile individuazione e catalogazione per le forze di sicurezza sia egiziane, palestinesi che israeliane.
Ciò che, invece, è stato stimato con sicurezza è il ritorno in Egitto di almeno 1000 jihadisti dai fronti caldi dell’Afghanistan e Pakistan e, da ultimo, anche dall’Iraq e Siria, confluiti soprattutto nell’ Ansar al Bayit al-Maqdis, e che, a loro volta, hanno fatto proseliti fra i giovani beduini del Sinai.
L’accuratezza dell’esecuzione di quegli attentati ha fatto presupporre, infatti, una pianificazione scrupolosa con addirittura delazioni sospette, seppure poi scartate, fra le fila dell’ intelligence militare egiziana a favore dei terroristi. E’ stato appurato, infatti, che nell’ISIS sono presenti ufficiali del vecchio regime di Mubarak, che seguirono Abu Hamaz al-Muhajer, primo “ministro della difesa” dell’ISIS, poi ucciso durante un’operazione militare; costui aveva fatto proseliti fra le fila dei militari egiziani con uno scritto “Lo Stato Profetico” che, con un altro testo, intitolato “La Promessa Divina”, sono tutt’oggi considerati il manifesto dottrinale dell’ISIS. Tuttavia, della delazione di ufficiali dell’ intelligence egiziana, circa particolari che avrebbero permesso a quei terroristi di compiere gli attentati del 24 ottobre, non si ha, al momento, alcuna certezza.
Secondo alcuni osservatori egiziani, l’instabilità del Sinai sarebbe soprattutto il risultato drammatico di anni di noncuranza da parte del governo centrale di ciò che stava accadendo in quella Penisola, dal degrado economico-sociale alle infiltrazioni e insediamento di jihadisti sino al tranquillo prosperare dei loro traffici illeciti.
Ecco perché in Egitto e da più parti nella regione si invocano piani di sviluppo urgenti che dal centro del Paese si muovano verso est, in particolare dalla regione del Canale di Suez sino alla frontiera con Israele, in cui il Sinai rappresenta un fattore di rischio per le infiltrazioni da Gaza, ossia al momento il fattore strategico più debole per la sicurezza della nazione ebraica.
Al tal fine, la risposta immediata del governo de Il Cairo a quegli attentati è stato l’invio di corpi speciali con funzioni di polizia e il rafforzamento del pattugliamento terrestre e aereo delle zone più a rischio, ossia l’area costiera del Sinai e, appunto, fino al confine con Gaza, tanto da imporre il coprifuoco dal tramonto all’alba, così come la chiusura del valico di Rafah in maniera indefinita, ipotizzando addirittura la creazione di una zona cuscinetto in modo da isolare Gaza. O meglio, più che un’ ulteriore striscia di terra con un muro di recinzione, al-Sisi starebbe progettando un canale d’acqua di 6 km tra Rafah e il valico Keren Shalom con Israele, là dove sono più presenti i tunnel palestinesi. L’idea sarebbe stata addirittura suggerita dai capi delle tribù beduine della zona, decisi anche ad abbandonare l’area pur di permettere i lavori e garantirne la sicurezza, essendo stati presi a bersaglio dai tagliagole di Ansar al Bayit al-Maqdis perché collaboratori con il governo centrale egiziano.
In definitiva, quel che l’Egitto di al-Sisi sta maggiormente temendo è il flusso inverso da Gaza verso il suo territorio proprio di elementi jihadisti (in particolare dai gruppi Jaljala, Jund Allah e Jund Al-Islami), che realizzerebbero quanto chiesto dall’ISIS ai suoi sostenitori egiziani in vari messaggi sul web, ossia di non unirsi più ai combattenti della “terra del jihad”, (Iraq e Siria), ma di appoggiare i loro “fratelli” di Ansar al Bayit al-Maqdis e di supportarli nella loro lotta contro il governo di al-Sisi, siglando quei diktat in video con la frase “lo Stato Islamico sta arrivando”.
Accanto all’azione militare, al pattugliamento del Sinai e alla costruzione di barriere e canali, il governo di al-Sisi punta, com’è logico che sia, al rilancio economico e industriale del Paese proprio per sottrarre soggetti al proselitismo dei jihadisti e per concretizzare progetti elaborati negli anni ‘90 dal regime di Mubarak.
Fra questi vi è quello dell’ampliamento del Canale di Suez, ma anche la ripresa del vecchio progetto Toshka di rilancio dell’agricoltura lungo la Valle del Nilo, proprio a concretizzare la messa in sicurezza del Paese a partire da Occidente verso Oriente, con uno scopo finale, ambizioso e molto controverso ma non impossibile, di realizzare a ridosso del Canale il progetto che era già stato caldeggiato da Morsi, ossia una Silicon Valley egiziana (nel triangolo Port Said-Suez-Ismailia), intesa come polo industriale e tecnologico di grande portata, non solo per il Paese ma per l’intera area mediterranea.
Della strategicità economica e militare del Canale di Suez per l’Egitto si è già a conoscenza: il 7% del petrolio mondiale transita per quel tratto di mare, così come il 12 % del gas naturale liquefatto, con un traffico annuale di oltre 17mila navi mercantili e che, sebbene avesse registrato un calo dopo il 2011, dal 2013 è in netta ripresa. Insieme al petrolio, alle rimesse e al turismo, le rendite dal Canale rappresentano la quarta fonte di entrate per le casse statali egiziane, con i suoi 5 miliardi di dollari annui solo di pedaggi pagati dalle navi in transito.
Inoltre, anche dal punto di vista militare, da ben 144 anni, il Canale di Suez rappresenta una via d’accesso per le flotte nel Mediterraneo, Mar Rosso e nell’Oceano Indiano. Non a caso, infatti, proprio i vertici militari egiziani che, dal 2013, sono presenti come maggiori azionisti in tutti i grandi appalti per le opere pubbliche (un valore all’incirca di 1,5 miliardi di dollari), gestiscono ora la società a controllo statale a capo del progetto. Ciò anche a conferma del loro potente ruolo in campo economico: se già prima delle rivolte, le autorità militari erano protagoniste importanti, dopo il 2011, costoro hanno visto il loro patrimonio salire al 45% dell’economia egiziana.
Già il presidente Morsi, con partner finanziari del Qatar, aveva predisposto un progetto per l’ampliamento di Suez, ma venne criticato dai suoi connazionali che vi vedevano la vendita del Canale a Doha; inoltre, nel progetto di Morsi e dei FM, venivano poste limitazioni al regime fiscale privilegiato di due città porto franco come Port Said e Suez, proprio a forte scapito degli interessi economici delle Forze Armate che tuttora le controllano.
Al-Sisi ha riproposto il progetto con l’offerta pubblica iniziale e un consorzio di 37 aziende egiziane, ma con l’aggiunta anche di nuovi partner, ossia l’Arabia Saudita, gli Emirati Arabi e il Kuwait, con un impegno finanziario di 4 miliardi di dollari.
Il progetto, il cui avvio è stato inaugurato il 5 agosto scorso, e per un costo complessivo di 70 miliardi di dollari e la creazione di oltre 1 milione di posti di lavoro, prevede l’ampliamento della portata del Canale dalle attuali 49 a 97 navi mercantili giornaliere, creando una via di transito parallela di 72 km che permetta il doppio senso di navigazione contro l’alternato attuale, a cui si aggiungerebbero la costruzione di nuovi porti, addirittura 6 gallerie (4 per il traffico su ruota e 2 su rotaia, e a vari livelli), e i vantaggi di un aumento della profondità del Canale stesso.
Infatti, al momento, vi sono limiti nel tonnellaggio delle navi container e delle navi cargo petroliere VLCCs (very large crude carriers), tanto che alcune di queste debbono ricorrere a trasferire parte del loro carico nell’oleodotto SuMed che collega il terminal Ain Sukhna sul Mar Rosso a quello di Sidi Karir, sul mar Mediterraneo nei pressi di Alessandria. La creazione di questa via alternativa permetterebbe, quindi, a più navi portacontainer e petroliere di grandi dimensioni (dette anche Suezmax, ossia di taglia massima autorizzate a transitare nel Canale) di passare contemporaneamente e con tempi accelerati, con un guadagno annuale stimato di 13 miliardi di dollari, a fronte dei 5 attuali.
La stessa Maersk Line, la più importante compagnia di navigazione commerciale al mondo, dall’aprile 2013, ha ormai optato per il Canale di Suez al posto di quello di Panama per il passaggio dall’Asia alle coste orientali statunitensi, potendo far transitare a Suez, a differenza del passaggio centroamericano, le sue navi container Triple-E da 18,000 Teu, con gli inevitabili effetti sulla diminuzione dei costi di trasporto.
Il raddoppio del traffico lungo il Canale incontra, però, alcune opposizioni che riguardano gli incerti vantaggi economici a fronte dei rischi di incidenti (1:1100 a Suez contro 1:4000 a Panama), l’evacuazione improvvisa e forzata di villaggi per via dei lavori, i tempi di realizzazione troppo stretti, ma soprattutto, e per quel che ci riguarda in questa analisi, le impellenti e concrete minacce alla sua sicurezza che provengono dalle sue sponde orientali, appunto, dal Sinai sino alle acque antistanti l’Arabia Saudita.
Per l’Egitto di al-Sisi, dare risposte concrete a questa opposizione sta diventando una improrogabile priorità. E non si tratta solo della presenza di jihadisti dell’ISIS, ma anche della “vecchia” al-Qaeda che, attraverso il primo numero della sua rivista Resurgence, postata on line nel forum in lingua inglese Shamikh 1.info, e per voce della sua neonata branca mediatica dell’Asia sud-orientale, as-Sahab, chiama i suoi combattenti a colpire in tutti i mari del mondo le petroliere e le navi container battenti bandiere occidentali. Ciò è parte della multi-pronged strategy di rilancio di al-Qaeda a fronte dei successi che sta ottenendo l’ISIS in più aree un tempo da essa controllate. In pratica, al-Qaeda incita a colpire non solo obiettivi militari, soprattutto statunitensi, presenti nei Paesi islamici, ma anche le fonti di sostegno economico a questo impegno militare, in cui oleodotti, gasdotti, navi petroliere e zone strategiche del loro passaggio diventano gli obiettivi principali. Nel messaggio si fa chiaro riferimento agli stretti di Gibilterra, Hormuz, Bab el-Mandeb, le acque del Golfo Persico, Malacca e anche il Canale di Suez, vantando di avere combattenti pronti all’azione in Algeria, Siria, Somalia, Sinai, Filippine e Indonesia.
Non è, quindi, un caso che proprio le navi che transitano e/o stazionano nei porti egiziani del Grande Lago Amaro e di alBallah siano possibili obiettivi di attentati kamikaze come evidenziato dall’ intelligence militare visto l’attivismo di cellule qaediste operanti dallo Yemen e di IED posizionati in quelle acque. Seppur un efficace attacco dal mare con esplosivi alle moderne navi commerciali sia molto più complesso di un’azione su terra, e quindi difficile di attuare viste le competenze ingegneristiche richieste e il massiccia quantità di esplosivi necessari, ciò che si vuole evitare è quanto già accaduto nel 2000 con gli attentati contro la USS Cole e, nel 2002, contro la M/V Limburg - che fra l’altro rappresentò il primo successo di attacco di al-Qaeda contro una petroliera - in entrambi i casi contro navi non in navigazione. Lo stesso rischio di rapimento di navi, in perfetto stile piratesco, da parte di elementi terroristici per poi utilizzarle come armi contro altri obiettivi, è considerato attendibile dall’ intelligence e le forze di sicurezza egiziane. Infatti, l’obiettivo dei terroristi sarebbe quello di attrarre l’ attenzione con poche ma eclatanti azioni, al fine di allertare le agenzie di navigazione, le loro assicurazioni o anche solo bloccare la navigazione con navi distrutte e semiaffondate.
La sicurezza, quindi, lungo le acque e nei porti egiziani pare essere la priorità più incalzante per l’Egitto di al-Sisi per non dover perdere gli enormi vantaggi economici dai passaggi lungo il Canale. Lo è da sempre, sicuramente, come mostrano i continui pattugliamenti delle sue acque e il controllo sui traffici, soprattutto di armi e di esplosivi provenienti dai conflitti libico e siriano. Tuttavia, ora l’intera questione sicurezza del Sinai sembra assumere valenze maggiori anche per i risvolti di carattere geo-economico e politico mondiale.
Non è un caso che la stessa Cina, che utilizza il Canale di Suez per i suoi rapporti con il più grande mercato per le sue esportazioni, ossia l’Europa, abbia già reso pubblica da tempo (inizio 2014) la strategia di un più rapido collegamento dal suo territorio alla regione del MENA, attraverso sia una via terrestre (rete ferroviaria ad alta velocità) che quella marittima, con l’aumento dei suoi movimenti commerciali proprio nel Canale di Suez. Questo double-track approach a quella che viene definita la “nuova strategia cinese della via della seta”, in realtà, sta avendo importanti ripercussioni anche nelle decisioni di al-Sisi, in quanto la Cina sta imponendo condizioni importanti proprio relativamente alla sicurezza dello tragitto dallo stretto di Aqaba al Mediterraneo.
Ancor prima delle rivolte, la Cina aveva pesantemente investito nel Canale di Suez: la COSCO Pacific, la sua più importante compagnia marittima, e la China Harbor Engineering Company (CHEC) avevano investito nel 2008-2009 circa 1miliardo e 400milioni di dollari per l’ammodernamento dei porti sull’intero tragitto del Canale e per la gestione dei terminal di container di Port Said. Con l’aumento dell’instabilità interna egiziana, tuttavia, e vari ritardi nel passaggio delle proprie navi, i rapporti fra Pechino e Il Cairo avevano subito scossoni, con il colpo di grazia dato dall’attacco con granate di una nave cinese della COSCO Asia, il 31 agosto del 2013, ad al-Qantarah, all’imbocco meridionale del Canale. Sebbene i danni non fossero stati gravi, le ripetute minacce del gruppo che si dichiarò responsabile dell’attacco, ossia le Brigate al-Furqan vicine ad al-Qaeda, imposero a Pechino di rivedere la sua dipendenza dal passare nel Canale di Suez e rispolverare un’alternativa terrestre già in fieri dal 2012.
Il progetto è, infatti, quello Red-Med, ossia di una ferrovia per trasporto passeggeri e merci, lunga 217 km, dal porto di Eilat sul Mar Rosso (con le navi deviate, quindi, nel Golfo di Aqaba) e, attraverso il Negev e lungo il confine con la Giordania, puntare a occidente sulle città della costa del Mediterraneo come Ashdod e Tel Aviv sino ad Haifa, in parte già costruita da Tel Aviv a Beersheba dalla società israeliana Netivei Israel. L’intero progetto è ben visto dal governo Netanyahu, sebbene l’impegno finanziario sia israeliano che cinese, dagli 8 ai 13 miliardi di dollari, non pare essere totalmente coperto da sicuri ritorni in termini commerciali. Tuttavia, porsi come alternativa al Canale può rappresentare per la stessa Israele un’opportunità per diventare terra di passaggio per i traffici commerciali continentali, creando altresì opportunità economiche non indifferenti. Anche in questo caso, tuttavia, la questione sicurezza contro azioni terroristiche spicca come priorità assoluta, ma con le garanzie ben più certe del sistema di difesa israeliano rispetto a quelle egiziane, almeno con quanto visto sino ad ora.
L’alternativa della ferrovia cinese al Canale di Suez e sul territorio ebraico non sembra, comunque, al momento così immediata nella sua realizzazione, quantunque vi sia ampia determinazione sia da parte di Tel Aviv che di Pechino.
Sebbene non sia stato presentato come alternativa alla mancata sicurezza del Canale di Suez, il progetto Red-Med ha già allertato l’ establishment egiziano di al-Sisi che, invece, nella realizzazione del suo progetto ha investito non solo finanziariamente ma anche come immagine di un nuovo Egitto indipendente.
Al di là del significato che ha sempre avuto il Canale di Suez nella storia politica egiziana, ossia simbolo della sua potenza economica e, con la sua nazionalizzazione, anche di emancipazione dalle potenze straniere, il nuovo progetto di ampliamento nasce e si sta sviluppando in un contesto emotivo in cui anche il luogo scelto per la sua presentazione è carico di simbologia, fondamentale per questa fase di grande sfida dell’Egitto di al-Sisi. La stessa città di Ismailia, da dove ad inizio agosto 2014 al-Sisi ha dato l’annuncio dell’avvio dei lavori, è associata all’influenza britannica e alla rivoluzione del 23 luglio del 1952, per cui è un naturale riferimento all’immagine di un Egitto repubblicano e indipendente che rinasce dalle sue rovine.
E sull’indipendenza e sulla ricostruzione ruota l’intera retorica del discorso di al-Sisi di presentazione del progetto: dalle imprese coinvolte ai finanziamenti tutto deve essere egiziano. Il nuovo rais, tuttavia, tralascia di dire che ciò riguarderà solo la parte relativa allo scavo del Canale e dei tunnel; mentre tutto il resto, dai nuovi porti all’ hub tecnologico previsto nel Sinai vi partecipano, oltre a quelli citati più sopra, altri investitori stranieri, come Stati Uniti, Norvegia, India, Olanda e la stessa Russia.
Ma vi è un altro elemento che non è stato e non poteva certo venir menzionato dal presidente al-Sisi nel discorso inaugurale a Ismailia, ossia che essa fu anche il luogo in cui, nel 1928, nacque il movimento dei Fratelli Musulmani e che nel 1952 combatterono e sostennero la rivolta dei Liberi Ufficiali. Al-Sisi non si è semplicemente appropriato di ciò che Ismailia e il Canale di Suez possono rappresentare per il suo governo come simbolo di indipendenza del nuovo Egitto: la sfida è, infatti, tutta interna, e parte proprio dalle minacce alla sua sicurezza e stabilità che provengono da quel radicalismo islamico che ora si esprime istericamente con i gruppi jihadisti di Ansar al Bayit al-Maqdis e di Majlis Shura el-Mujaheddin e delle frange estreme di Hamas, e che ebbe origine, già nella seconda metà del secolo scorso, dal pensiero di un Fratello Musulmano di nome Sayyed Qubt, il primo a teorizzare il jihad contro i governanti musulmani “empi” al fine di ristabilire lo Stato Islamico.
Insomma, un flash back continuo di parole e simboli che sembra imporsi quotidianamente nella vita politica egiziana, dall’instabilità nel Sinai a tutto ciò che accade con gli attentati nel resto del Paese, e di cui al-Sisi ha piena consapevolezza. Ed è nell’estirpare anche le radici, radicali e violente, già parte del passato dell’Egitto che si gioca il futuro della nazione, del suo Sinai, del suo Canale e della sicurezza e stabilità di gran parte della regione mediorientale, in primis la stessa Israele, ad esso confinante.
6/11/2014
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