La questione delle terre rare ha maggiore rilevanza internazionale rispetto alle acque, ma con eguali ed urgenti implicazioni interne per le grandi potenze industriali ed economiche, quella americana in testa. Il mancato controllo di queste materie strategiche - di cui gli Stati Uniti sono il terzo consumatore, dopo Cina e Giappone - potrebbe finire per compromettere il settore trainante – tra l’altro l’unico rimasto – dell’economia statunitense, ossia quello informatico e dell’alta tecnologia che investe, in particolar modo, l’industria di componenti militari, quello delle comunicazioni, ma anche quello dell’economia “verde”, ossia quella legata all’energia rinnovabile.
Non è un caso che, come per le acque, anche l’accaparramento di questi metalli si sia innalzato, per gli Stati Uniti, a priorità per la loro sicurezza nazionale, come riconosciuto da un rapporto redatto per il Congresso nell’autunno del 2010.
L’impatto di questi metalli sull’economia internazionale è impressionante: le industrie al mondo che necessitano delle terre rare rappresentano il 5% del Pil, con una domanda che, negli ultimi dieci anni, è triplicata, proprio grazie all’impulso dato dai motori verdi. Ma ad esse sono anche strettamente legate le produzioni di componenti dell’industria bellica: dal lantanio dipendono i visori notturni, dal neodimio i sistemi a guida laser e le comunicazioni in genere, dall’europio i sistemi di illuminazione e i monitor, dall’erbio i sistemi di trasmissione in fibra ottica, dal samario i magneti resistenti alle alte temperature e i veicoli guidati a distanza e tutto ciò che riguarda la tecnologia stealth.
Insomma, tutto ciò che permette di muoversi e di comunicare ai mezzi bellici sia terrestri, che navali ed aerei, dipende dalle terre rare, come pure i normali Blackberry, gli iPod, o i televisori di ultima generazione e, di conseguenza, la produzione di beni anche civili fondamentali per intere economie high tech, come quella del Giappone, degli Stati Uniti e di tutti quei Paesi che ricercano, con forti investimenti nella R&S, una via d’uscita dalla stagnazione, se non recessione, economica iniziata da alcuni anni.
La produzione cinese di terre rare è aumentata dal 1990 al 2000 del 450%, scalzando la concorrenza straniera con bassi prezzi, fino ad imporre la chiusura di alcune fra le miniere più attive sino ad inizio del nuovo secolo, come la statunitense Molycorp Mountain Pass. Inoltre, nell’ultimo decennio, il loro prezzo è praticamente quadruplicato: solo da luglio 2010 a febbraio 2011 si è passati dai 14.000 $ /tonn. ai circa 54.000 $/tonn.
Di questi minerali vi è abbondanza, più del piombo e dell’argento: la rarità non è quindi una loro caratteristica, quanto invece gli alti costi del processo della loro separazione dalla massa mineraria di partenza, in particolare se, in questa fase di lavorazione, vengono rispettate le norme di protezione ambientale.
Proprio per questo motivo, l’Occidente ha delegato per anni la questione dell’estrazione e della lavorazione di questi elementi alla Cina, in parte per via delle sue ricche miniere, ma anche per il basso costo della manodopera mineraria e produttiva e, soprattutto, per la totale assenza di norme a tutela ambientale, in grado di limitare l’offerta e, quindi, il loro commercio mondiale.
Infatti, proprio nella regione di Baotou, nella Mongolia centrale, la più ricca area cinese di terre rare, la loro raffinazione senza alcun rispetto delle norme ambientali ha prodotto un inquinamento con materiale tossico, e in particolare di torio, del Fiume Giallo che la attraversa: il risultato dell’impatto su questa fonte d’acqua per 150 milioni di persone è stato devastante dato che, proprio in quell’area, negli ultimi anni, si è registrato un aumento della percentuale di malati di cancro molte volte superiore al resto del Paese. Un rischio, fra i tanti, che il governo cinese si è accollato negli ultimi decenni per proseguire nella corsa verso un suo sistema di libero mercato e per soddisfare una crescente domanda mondiale, e che ora gli viene contestato, ipocritamente, dal resto del mondo più industrializzato molto sensibile adesso allo stato di salute del pianeta.
Proprio l’Occidente pare ora svegliarsi dal quel comodo torpore opportunista e riscoprire, oltre al degrado ambientale cinese, anche la rilevanza strategica delle terre rare per la propria sopravvivenza economica e produttiva. C’è da chiedersi, anche in questo caso, quanto siano state utili le migliaia di analisi e le sofisticate previsioni dei centri studi delle grandi aziende e delle multinazionali concentrate nella ricerca e nello sviluppo di nuove tecnologie, che paiono non aver tenuto conto di aspetti economici cruciali, come la concentrazione geografica e la esclusiva disponibilità cinese di materie prime e i relativi costi sia economici che politici per realizzare i loro prodotti ad alta tecnologia.
Al contrario, la decennale consapevolezza di questa nuova ricchezza ha permesso alla Cina, con una lungimiranza eccezionale, di istituire un sofisticato apparato messo in moto dal governo centrale a conferma di quanto la questione delle “terre rare” abbia assunto importanza nella programmazione quinquennale e di come potrebbe sconvolgere gli equilibri economici e produttivi del nuovo secolo.
Già nel 1990, il governo cinese aveva dichiarato quei minerali “protetti e strategici”, proibendo l’accesso ad investitori esteri se non in joint venture con aziende cinesi per l’estrazione e la separazione. Insomma, una ricerca e una lavorazione sotto strettissimo controllo del governo centrale, e con un iter ministeriale elaborato e complesso, a rimarcare l’importanza attribuita dai massimi vertici politici cinesi già vent’anni fa a materie che solo nell’ultimo anno hanno assunto rilevanza per i produttori occidentali.
Ciò, almeno, è quanto si desume dalla lettura del rapporto China’s Rare-Earth Industry, di Pui-Kwan Tse, ossia una fitta rete di collaborazione e comunicazione fra enti provinciali e statali cinesi preposti al monitoraggio, all’estrazione e alla lavorazione delle riserve di materie rare e le aziende, anche straniere, coinvolte.
Questo complesso e raffinato sistema di monitoraggio e di vigilanza dell’estrazione e della lavorazione delle terre rare è stato voluto dal governo centrale di Pechino anche per contrastare il fenomeno del controllo di numerose miniere illegali da parte della criminalità organizzata cinese; vere e proprie operazioni di polizia, alla stregua di una guerra ai narcotrafficanti, con sorvolo di vaste aree ricche di miniere – come l’area di Guangdong settentrionale - vengono puntualmente condotte al fine di stroncare un traffico di estrazione e di raffinamento illegale di queste materie, poi rivendute alle imprese straniere presenti sul territorio cinese ad un prezzo decisamente inferiore a quello internazionale.
Inoltre, le esportazioni di questi minerali si sono già mostrate un’arma diplomatica eccellente: la decisione del 2009 di ridurle a scapito del Giappone, come ritorsione per l’irrisolta vicenda delle isole Senkaku, aveva allarmato non tanto i ministeri degli esteri occidentali quanto i vertici dei principali organismi economici ed industriali mondiali.
Il fatto stesso, poi, di aver ridotto le esportazioni di terre rare verso il resto del mondo – da un -6% del 2006 si è giunti, nel primo semestre del 2011, al -35% - ha indotto alcuni paesi Occidentali ad avanzare, sebbene molto tardivamente, le loro preoccupazioni e a tentare di correre ai ripari per limitare la pressione cinese sul sistema produttivo e, quindi, sulle possibilità di ripresa. E’ come se i destini di settori trainanti l’economia statunitense, in primo luogo, come l’alta tecnologia che è sopravvissuta alla crisi finanziaria del 2008, dipendano dalle decisioni in materia di “terre rare” proprio dai vertici politici cinesi.
Infatti, l’elemento cruciale dell’intera questione delle riserve mondiali di terre rare sta proprio nel cambio di direzione.
Oltre ad essere e rimanere il principale produttore di questi elementi, la Cina si sta indirizzando ad essere anche uno dei principali consumatori a livello internazionale, a causa dell’impennata nella produzione cinese di componenti elettroniche e di alta tecnologia. L’alto numero di brevetti che il governo cinese ha ipotizzato di raggiungere entro il 2015 - ossia 2 milioni contro i 300mila del 2009 e il superamento degli Stati Uniti già entro quest’anno – fa affidamento proprio sulla grande disponibilità di questi minerali che si sono gradualmente trasformati da componenti indispensabili per l’alta tecnologia a elementi strategici per il sistema produttivo a venire ma, soprattutto, in uno strumento diplomatico altamente sofisticato.
Nell’ultimo decennio, la ricerca cinese di questi metalli si è indirizzata, infatti, in Africa, ossia verso un continente ora ritornato alla ribalta delle cronache, soprattutto militari, ma lasciato per anni, nel bene e nel male, in un generale dimenticatoio che ha permesso a Pechino di intervenire economicamente, dandogli nuove opportunità di sviluppo e di rilancio anche politico e diplomatico.
Dopo aver istituito la più grande compagnia al mondo di ricerca ed estrazione di terre rare (la China Minmetals Rare Earth Co. Ltd), Pechino si sta, infatti, muovendo attivamente da un paio d’anni con alcuni Paesi africani fornendo prestiti e costruendo infrastrutture in cambio della fornitura di questi minerali.
A questa corsa per le terre rare africane, la Cina concorre anche per accedere all’uranio, al rame, ferro e manganese sia per i reattori nucleari che per la produzione industriale tradizionale. Il tutto si risolve così anche in un’opportunità grandiosa per un cambio di direzione per molti Paesi africani, dato che gli investimenti cinesi, come è successo lo scorso anno per Congo e Zimbabwe, permettono di uscire dal tunnel del debito contratto con Banca Mondiale e Fondo Monetario Internazionale.
Le “terre rare” rappresentano così un’occasione per la Cina per mettere mano alle ricchezze africane, anche su componenti strategici più delicati e rischiosi come l’uranio: nel frattempo, l’Occidente si risveglia dal suo torpore e scopre che i vecchi sistemi di vincolo finanziario intrapresi con quel continente attraverso gli “aggiustamenti strutturali”, in cui la liberalizzazione di ricchezze ha significato, di fatto, la svendita del loro patrimonio a interessi privati stranieri, non funzionano più.
La Cina ha fatto, inoltre, sì che nei rapporti con l’Africa e nella ricerca delle terre rare proprio l’acqua diventasse la chiave di volta per eccellenza, attraverso quella damdiplomacy, ossia la diplomazia delle dighe, (come nei rapporti fra Cina e Sudan, ad esempio), che sta sortendo effetti politici importanti per vaste aree africane, e a cui l’Occidente guarda distrattamente o superficialmente, relegando sempre il tutto a loschi traffici di armi fra Pechino e le élite al potere in quei Paesi.
Acqua e terre rare, quindi, non debbono essere sottovalutate, sia come fattori determinanti per la vita economica e produttiva, normale e quotidiana, di gran parte del mondo industrializzato, sia anche come fattori destabilizzanti nei delicati equilibri fra possessori (Cina e Africa) e grandi utilizzatori (Stati Uniti, Giappone e quanti altri), senza trascurare il fatto che fra questi ultimi vi è il loro maggiore detentore.
L’Africa dispone di entrambe: vi sono potenziali conflitti per le acque (per esempio fra i paesi rivieraschi lungo il Nilo) e vi sono alleanze strategiche “pericolose” con partner potenti e indirizzati a marciare speditamente verso il loro totale ed esclusivo sfruttamento, come la Cina, pronte a tutto per la conquista di una supremazia nelle “terre rare”.
Ma vi sono anche altre aree come l’Afghanistan che dispone, fra le altre ricchezze, di 3000 miliardi di dollari di questi metalli pronti per essere estratti.
Che si voglia o no, la politica estera è economia; solo in piccolissima parte è politica fine a se stessa, e meno che mai è rivolta alla protezione dei diritti delle popolazioni civili. La corsa alle “terre rare” conferma questo indirizzo: e la presa di coscienza di ciò può far affermare, senza timore di smentita, che su di esse si sta giocando e si giocherà nel futuro più prossimo la lotta fra potenze economiche ed industriali per la loro sopravvivenza e quella di un sistema capitalistico che dovrà rivedere i propri piani di sviluppo e di investimento, cercando, per quanto è ancora possibile, di ricredersi sull’eccessiva fiducia nelle leggi del mercato totalmente libero e sulle liberalizzazioni di beni primari, come l’acqua, o di minerali strategici, senza correre il rischio di soccombere o di intraprendere costosi, quanto inutili e sanguinosi conflitti, per riconquistare territori che si stanno rivelando fondamentali per la propria sopravvivenza.
18/5/2011