E’di alcuni giorni fa la messa in onda della rivendicazione dell’attentato all’aeroporto di Mosca, del 24 gennaio, con 36 vittime e 180 feriti, da parte del terrorista ceceno Doku Umarov, a cui ha aggiunto il voler eseguire, “a Dio piacendo”, nuovi attacchi suicidi, in risposta ai “crimini commessi dalle autorità russe nell’area del Caucaso”. Già responsabile di altri sanguinosi attentati, fra i quali quello alla metropolitana di Mosca e alla linea ferroviaria Mosca-San Pietroburgo, Umarov si è autoproclamato emiro di quel tanto ambito Emirato Caucasico che ha fatto del jihad lo strumento per “riportare la parola di Allah” nei vecchi possedimenti all’ estremità meridionale dell’ ex Unione Sovietica.
Quasi contemporaneamente a questo messaggio, agenzie di stampa diffondevano la notizia di attriti lungo il confine fra Armenia e Azerbaijan per l’indipendenza del Nagorno-Karabach, tanto da ipotizzare nuovi venti di guerra.
Parallelamente, a Grozny, capitale della Cecenia, avveniva l’ennesima serie di attentati terroristici contro il potere centrale da parte di gruppi estremisti islamici.
In pratica, da nord a sud del Caucaso, con sporadici ma cruenti eventi nella stessa Russia, si stanno risvegliando fenomeni così delicati per la sicurezza di un’area tanto strategica per il passaggio degli oleodotti e gasdotti, quanto pericolosi per le implicazioni regionali e internazionali. Ma andiamo con ordine.
Il terrorismo di matrice islamica appare in Caucaso alla metà degli anni ’90, in particolare nella zona settentrionale, di cui il conflitto in Cecenia (1994-95/1999-2000) è il fenomeno più conosciuto, per poi diffondersi a vaste regioni dell’Asia centrale, dal Tajikistan all’Uzbekistan. Come già accaduto in altre realtà, quel terrorismo è espressione dell’estremizzazione, non riconosciuta dalla maggioranza del mondo musulmano, di una lotta (jahada) per la diffusione della fede islamica, in cui si combattono il Bene o la Dar al-Islam (o casa dell’Islam) e il Male o Dar al-Harb (letteralmente casa della Guerra), in una condizione di conflitto perenne, sino alla vittoria dell’Islam. Una giustificazione religiosa, per una lotta estrema – rinnegata, però, dai veri musulmani - a cui si sono aggiunti da tempo obiettivi ben più terreni.
Il radicalismo islamico nord caucasico si è sostituito, infatti, gradualmente negli anni a quei movimenti di lotta per l’autodeterminazione e per la secessione che già all’indomani dello scioglimento dell’impero sovietico avevano scosso realtà quali il Dagestan-Azerbaijan, per la creazione del Lezgistan, il Karachay-Circassia, il Kabardino-Balkaria, il Nagorno-Karabach, l’Adzaria, l’Abkazia e l’Ossezia: tutte realtà etniche e territoriali che chiedevano l’indipendenza politica ed amministrativa da Mosca, cavalcando rivendicazioni indipendentiste che il governo centrale sovietico aveva a suo tempo riconosciuto legalmente e a cui aveva dato rappresentanza seppur all’interno di un unico grande impero unito.
I movimenti radicali islamici fecero, quindi, la loro prima comparsa nella zona occidentale del Caucaso a fianco dei movimenti indipendentisti, presenti per lo più nella parte orientale, invocando il jihad e ponendosi trasversalmente alle rivendicazioni territoriali. La loro influenza dilagò al punto da portare a scontri aperti non solo con il potere costituito legato alla Russia, come nel caso della Cecenia, ma anche fra fazioni islamiche diverse, da wahabiti, a sufi e salafiti, presenti in tutta la regione.
Dalla metà degli anni ‘90, i diversi movimenti caucasici per l’indipendenza politica e territoriale da Mosca, e del tutto autoctoni, subirono forti influenze esterne tanto da venire scalzati da quelli di matrice islamica, con il loro ambizioso progetto di istituire l’ “Emirato del Caucaso” e di un “Islam puro”. Non è stato difficile per questi ultimi subentrare ai primi movimenti: la religione, ed in particolare quella musulmana, per anni repressa da Mosca proprio nel Nord del Caucaso - la regione con il più alto tasso di disoccupazione e povertà di tutto l’ex impero sovietico - ha fatto proprio il desiderio di un ritorno a valori universali per combattere la dilagante corruzione delle istituzioni locali ed la sofferta e diffusa ingiustizia sociale.
In pratica, si è concretizzata e diffusa, attraverso i movimenti radicali islamici, una reazione naturale al fallimento del sistema di democratizzazione voluto da Mosca all’indomani del dissolvimento dell’impero sovietico.
L’obiettivo di colpire soprattutto il potere centrale russo ha arginato, sino ad ora, il contributo di questi movimenti al jihad globale, così come è andato progressivamente strutturandosi dopo l’11 settembre e secondo i proclami di Osama bin Laden. Ciò che ha limitato la loro azione a quel territorio e a quello russo, è il mancato sostegno del mondo arabo al richiamo jihadista, interessato più ad avere una Russia stabile per un suo ruolo strategico nel processo di pace in Medio Oriente, che una Russia indebolita da forti movimenti radicali lungo i confini del suo ex impero.
Tuttavia, ciò non ha impedito che questi gruppi terroristici dichiarassero la loro unanime volontà di combattere il potere di Russia, Stati Uniti ed Europa nella regione, a cui non sono mai mancate dichiarazioni anti-Israele. In pratica, si è dato l’avvio ad una guerra santa contro gli interessi occidentali presenti nella regione per lo più con multinazionali e compagnie petrolifere.
Gli analisti si sono divisi sulla natura di questi conflitti, di limitata o vasta portata, dai toni nazionalistici e poi religiosi, anche se vi è una convinzione unanime che, di fatto, imputa questi scontri proprio alla competizione a cui si rifà l’intero Grande Gioco delle potenze mondiali in Asia Centrale per la definizione e il controllo dei corridoi degli oleodotti e dei gasdotti.
A questa logica risponderebbe anche lo scontro fra Armenia e Azerbaijan (con oltre 3000 morti dal 1994) per il controllo del Nagorno-Karabach (e alla cui difesa contribuiscono forze armene), a cui si aggiungono simpatie e relazioni regionali che preoccupano gli analisti delle grandi compagnie petrolifere come la BP, la ExxonMobil e la Chevron che gestiscono le estrazioni in quella regione. A ciò si aggiungono i più profondi legami commerciali fra Iran e Armenia che, sebbene non riconosca ufficialmente l’indipendenza dell’enclave del Nagorno-Karabach, è pronta a farlo in caso di guerra con l’Azerbaijan, alleato fidato della Turchia.
In pratica, il Nagorno-Karabach – rivendicato dagli armeni già dal 1918 e da allora oggetto di conflitti cruenti – allo scioglimento dell’Unione Sovietica nel 1991 si è staccato dall’Azerbaijan musulmano con l’aiuto di un’Armenia cristiana, pronta a mettere in gioco le proprie alleanze internazionali e regionali, stringendo stretti legami commerciali – fra cui anche l’accordo per un oleodotto - con l’Iran, soggetto cruciale della geopolitica e della geoeconomia del Medio Oriente.
L’Azerbaijan accusa, quindi, l’Armenia e l’Iran di minacciare con quel nuovo oleodotto gli interessi delle compagnie petrolifere, a cui si aggiunge la denuncia a Teheran di esportare droga nel suo territorio, e di appoggiare gli estremisti islamici che, dalla distante enclave azera di Nakhichevan, minacciano il governo centrale di Baku con tensioni ed azioni destabilizzanti. Ad alimentare la tensione internazionale si è aggiunta di recente una rivelazione di wikileaks circa la documentata fornitura armena di armi all’Iran e da qui alle fazioni sciite irachene,compromettendo, già nel 2003, le azioni militari statunitensi in Iraq.
In pratica, l’Armenia, nel suo disperato tentativo di trovare alleati nella regione, sembra muoversi in un’altalenante politica di alleanze internazionali, a cui gli Stati Uniti sembrano rispondere con minacce di sanzioni economiche, mai attuate anche per le forti pressioni della potente lobby armeno-americana e perché ultimo avamposto cristiano nell’area.
Della titubanza statunitense verso l’Armenia sembrano trarre notevole beneficio l’Iran e quei nuovi venti di guerra che, sebbene limitata, potrebbe avere effetti deleteri per la stabilità regionale e il passaggio degli oleodotti di strategico interesse, in particolare, per Stati Uniti ed Europa.
Il risultato di queste tensioni locali è stato il consolidamento di fortificazioni difensive lungo le 110 miglia del confine fra l’Armenia e l’Azerbaijan, fitte di tunnel sotterranei e campi minati, con un numero crescente di incidenti e di vittime. Lo stesso aumento a 3,12 miliardi di dollari annui di spesa militare da parte dell’Azerbaijan, dai ben più limitati 135 milioni del 2003, con una previsione di un aumento del 20% nel 2011 - a cui l’Armenia risponde con un ben più modesto budget di 600 milioni di dollari - è una diretta conseguenza dell’ innalzamento delle tensioni nell’area. Nella fornitura di armi all’Azerbaijan contribuisce principalmente la Russia, anche se Baku può vantare di possedere una propria industria bellica nazionale capace di fornire armamento leggero e mezzi corazzati, con l’apporto tecnico di Turchia, Israele, Pakistan e Sud Africa.
Gli attentati terroristici ceceni di Mosca e queste tensioni nel sud del Caucaso fanno temere realmente “conseguenze regionali devastanti”, in cui potrebbero riesplodere tensioni mai sopite, di cui l’irrisolta questione dell’Ossezia, dell’agosto del 2008, e – come nel caso dell’Armenia – l’oscillante politica di alleanze da parte della Georgia, sono solo dimostrazioni limitate della loro vera valenza internazionale.
Molto più di allora, tuttavia, un eventuale conflitto nel Nagorno-Karabach fra Armenia ed Azerbaijan potrebbe, di fatto, coinvolgere la Russia e la Turchia: Mosca verrebbe trascinata per quel Trattato di Sicurezza Collettiva che la obbliga a difendere l’Armenia se oggetto di attacco; lo stesso accadrebbe con Ankara che condivide con l’ Azerbaijan un patto simile, sebbene non ancora approvato dal parlamento turco. Per evitare il conflitto è auspicabile, quindi, che a prevalere siano gli interessi economici che accomunano queste due nazioni: la Russia è, infatti, il secondo partner commerciale della Turchia, oltre a condividere, manco a dirlo, il progetto dell’oleodotto South Stream.
In questa complessa ed allarmante prospettiva per la sicurezza nazionale ed internazionale, risulta decisamente curiosa la proposta fatta dal presidente russo Dmitri Medvedev di costruire un grande centro sciistico sulle pendici del monte Elbrus – nella regione russa di Kabardino Balkaria nel nord del Caucaso – “per portarvi turisti e fronteggiare il terrorismo” con un aumento degli impieghi economici da parte di Mosca. Per quanto lodevole possa essere una proposta di investimento di 11 miliardi di euro entro il 2020, che certamente potrebbe alleviare parte del peso della disoccupazione su un malcontento foriero di aggregazione per i gruppi di protesta e di lotta armata per quelli terroristici, sembra comunque un approccio troppo parziale ad un problema, come la stabilizzazione dell’area caucasica, che richiede soluzioni più concordi e multilaterali fra tutti i suoi protagonisti.
Inoltre, Mosca non dovrebbe dimenticare che il motivo principale dei suoi problemi con il terrorismo caucasico risiede nella guerra condotta dal proprio esercito per tutti gli anni ’90 in Cecenia; e dal rischio di una ripresa delle ostilità – con una guerra che, visti gli obiettivi in gioco e le capacità militari, si ipotizza lunga e di difficile soluzione- fra due soggetti così strategici, quali l’Armenia e l’Azerbaijan, è possibile che nascano nuovi elementi atti ad alimentare azioni terroristiche e destabilizzanti a beneficio di personaggi come Umarov e a scapito di quegli accordi di pace che, fino ad ora, hanno visto fallire l’intervento di mediazione della diplomazia mondiale.
Tuttavia, se rimangono inascoltati gli appelli dell’Osce circa i brogli elettorali avvenuti alle ultime elezioni in Azerbaijan e si continua a sostenere una “presidenza dinastica”, come quella degli Älyiev perché, sebbene a maggioranza islamica, l’Azerbaijan è una “democrazia controllata” che conviene agli interessi mondiali presenti nella regione, non dobbiamo stupirci se nel Caucaso continuano a soffiare venti di guerra e, soprattutto, se a Mosca si ripetono atti terroristici come quelli di fine gennaio.
Di certo, sarebbe auspicabile che, almeno una volta, la politica prendesse il sopravvento sull’economia e che i temibili spettri di una guerra o le rinnovate minacce terroristiche inducessero Russia, Stati Uniti, Europa e Turchia ad un confronto attorno ad un tavolo di trattative serie, su una delle regioni più calde per la sicurezza e lo sviluppo di una vasta parte della comunità mondiale.
10/2/2011
photo Asbarez.com
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