Se soltanto si conoscesse un po’ più di storia e di politica internazionale e se si cercasse di ragionare oltre i soliti schemi, che ingabbiano i giudizi su quanto è successo e sta accadendo in Nord Africa e in Medio Oriente in complessi modelli analitici, apparirebbero abbastanza chiare le similitudini con i fatti di questi giorni con quelli del 1979, con la caduta dello Scià di Persia, l’arrivo degli ayatollah e – senza forzare troppo l’immaginazione – anche con la corsa dell’allora presidente degli Stati Uniti Jimmy Carter per un secondo mandato alla Casa Bianca.
Certamente sono passati oltre tre decenni di complesse relazioni mondiali: è finita la guerra fredda e la sua logica di contenimento del comunismo, a cui corrispondeva, secondo la logica del twin pillars policy, l’appoggio degli Stati Uniti in quella regione all’Iran dei Pahlevi e all’Arabia Saudita. C’è stato un 11 settembre con il suo terrorismo islamico, sono state combattute – e ancora sono in corso – guerre troppo onerose per contenerlo. In pratica, sono cambiati i protagonisti, ma sono rimasti vivi i timori per la stabilità di una regione strategica per i più svariati e noti motivi; e il giudizio unanime di osservatori e analisti riconduce alla rabbia di queste popolazioni verso regimi oppressivi, in cui ha avuto un ruolo importante l’onda lunga di una recessione economica che investe gran parte del mondo occidentale e quello ad esso confinante, con povertà, disoccupazione, nessuna possibilità di riscatto per il futuro.
La consapevolezza, poi, appresa dalle rivelazioni di wikileaks, di essere gestiti da governi corrotti ha rafforzato quel desiderio di rivolta, di cui oggi, vediamo le conseguenze nelle strade di Tunisi, Il Cairo, Algeri e, per il richiamo ad una unità araba contro tutto ciò che è legato al passato, potrebbero essere ben presto visibili anche ad Amman, Rabat, piuttosto che Damasco.
L’opinione diffusa e condivisa da mass media e analisti riconduce, tuttavia, alle responsabilità dell’Occidente, dell’Europa, ma soprattutto della potenza americana nel supportare negli anni questi governi e i loro protagonisti, così comodi a interessi economici e mantenuti saldamente al potere, fino a quando qualcosa è scattato e ha fatto comprendere quanto obsoleti, inutili e soprattutto pericolosi possano risultare questi regimi per la stabilità mondiale. A questa diffusa ipocrisia si è sottratta solo Israele, che ha manifestato immediatamente la sua preoccupazione per la caduta di Mubarak che rischia di mettere in pericolo quella “pace fredda” che, dagli accordi di Camp David, ha evitato conflitti lungo i suoi confini con l’Egitto e che ben conosce i rischi di confronto con potenze, come l’Iran, appunto.
Il sottovalutare e non supportare fenomeni scomodi, come l’opposizione interna a quei regimi, o, peggio, sostenere quei governi per un quieto vivere e per opportunistici interessi economici, si dimostrano antiche abitudini che sembrano confermare un’opinione abbastanza diffusa circa l’incapacità degli Stati Uniti a cogliere gli insegnamenti del passato. Un’incapacità che è trasversale a tutte le amministrazioni americane degli ultimi quarant’anni e di cui i fatti iraniani, libanesi ed, in ultimo, iracheni sono stati gli esempi più evidenti.
L’opposizione allo Scià si era espressa nel corso degli anni ’70 attraverso fallimentari azioni terroristiche, organizzate da gruppi ideologicamente differenti, in cui fedayyin marxisti si trovavano paradossalmente uniti nell’obiettivo con i mujaheddin islamici, a cui si era affiancata un’opposizione formata per lo più da intellettuali che, non disponendo di mezzi di aggregazione come internet, non riuscirono ad esprimersi in una solida resistenza, che rimase confinata ai campus delle università persiane o alle pagine di libri accessibili solo ad un’esigua fetta della popolazione. La gestione della rivolta cadde, così, in mano a quei capi religiosi a lungo esiliati e il cui richiamo ai valori religiosi dell’Islam trovò il sostegno di una popolazione per cui i valori laici, caldeggiati da un governo appoggiato dall’Occidente, avevano il significato esclusivo di corruzione politica e di sfruttamento della nazione per interessi estranei a quelli del popolo persiano.
I capi religiosi della rivolta, in cui dominava la forte attrazione esercitata da un ayatollah come Khomeini, ben presto trasformarono il martirio dei caduti degli scontri di piazza in potente richiamo all’unità del popolo contro il regime, trovando così il collante per il dissenso e l’elemento catalizzatore della rivoluzione.
Non si tratta, ora, di ipotizzare quanto possa essere rischioso l’aggancio delle rivolte di questi giorni con i movimenti islamici più radicali, quanto piuttosto di comprendere in che modo, in tutto ciò che sta accadendo da Tunisi all’Egitto, sia responsabile quell’antica incapacità degli Stati Uniti a cogliere segnali di malcontento e trasformarli veramente in lotta per la democrazia. Questa incapacità ha impedito che l’Iran dello Scià Pahlevi degli anni ‘70, come la Tunisia di Ben Alì o l’Egitto di Mubarak di questi ultimi anni, esprimessero forze politiche democratiche sostenute veramente dall’Occidente, Stati Uniti in testa, in grado di sostituirsi a quei regimi troppo malandati e compromessi, senza correre il rischio di finire in mani decisamente più pericolose, non solo per il paese ma per l’intera area nordafricana, mediterranea e mediorientale.
Come allora, gli Stati Uniti non hanno il supporto e le amicizie in quella regione - se non Israele - in grado, comunque, di dimostrare quanto la nazione americana sia veramente convinta di condividere il richiamo a quei processi di democratizzazione vera che sembrano essersi risvegliati con le rivolte di Tunisi e il Cairo. E suonano lontani ed anche stonati, i tardivi proclami di solidarietà verso quei popoli che provengono da un Segretario di Stato, impettito ed impacciato, come è apparsa Hillary Clinton in video.
I fatti d’Iran del ’79, con gli ostaggi all’ambasciata americana e il tragico epilogo del tentativo di liberarli con quell’operazione segreta Desert One -e diventata, invece, nota come Desert Fiasco, per la morte di 8 militari americani a causa dell’approssimazione con cui venne pianificata dagli alti comandi militari statunitensi - costò il secondo mandato presidenziale a Jimmy Carter.
A novembre 2011 riparte la campagna presidenziale negli Stati Uniti: la prima mossa fatta dall’amministrazione Obama è stata l’evacuazione della sede diplomatica a iI Cairo, a dimostrazione che, forse, qualcosa gli Stati Uniti hanno appreso dalla storia dei loro fallimenti.
Rimane, tuttavia, il dubbio di quanto gli Stati Uniti di Barack Obama siano consapevoli della necessità di dotarsi di altri parametri per la ricerca di soggetti politici nuovi, pronti a gestire i governi a loro alleati, e si rendano conto dell’insufficienza dei soliti proclami conditi di eccessiva retorica di richiamo alla democrazia; in pratica, di quanto sia necessario dimostrare, con fatti concreti, la vera volontà di cambiare definitivamente approccio alla gestione di un’area fra le più strategiche e delicate per la sicurezza mondiale.
La posta in gioco è molto alta, molto di più della fine degli anni ’70, ancora in piena guerra fredda e quando vi era solo il pericolo del comunismo da contenere e il mondo era diviso chiaramente fra un bene da sostenere e un male contro cui combattere. Le potenze interessate a gestire le rivolte di questi giorni sono ben più numerose di allora; i fattori di criticità su cui fare leva, come elevata disoccupazione e fanatismo religioso sono, comunque, tanto diversi quanto distribuiti dal Marocco al Libano. Gli Stati Uniti debbono dimostrare di essere ancora una potenza nel porsi con alternative valide che non siano la fuga dei propri diplomatici o dichiarazioni colme di buone intenzioni e vuota retorica, come pure il ricorso a quel “mostrare i muscoli” che ha, invece, sortito l’effetto di aumentare l’antiamericanismo in quella regione.
La posta in gioco nelle rivolte di questi giorni è così alta da rappresentare una sfida decisiva per l’amministrazione Obama quando, nell’imminenza della campagna elettorale che si aprirà a novembre, dovrà dimostrare che la “lezione Iran” del 1979, prima fra tutte, è servita realmente a cambiare l’approccio americano alle infinite e complesse realtà mediorientali.
1/2/2011