Global Trends & Security Politica internazionale e Sicurezza, di Germana Tappero Merlo
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Ucraina, una guerra fra immediatismo occidentale e bluff russi, 20/11/2022

Ucraina, una guerra fra immediatismo occidentale e bluff russi, 20/11/2022 - Global Trends & Security

Vi sono  trappole in cui gli osservatori europei, od occidentali in genere, sono caduti sovente negli ultimi vent’anni nel commentare fatti e nel prevedere evoluzioni di contesti bellici in cui, come in Siria, è stata  coinvolta o, come ora con l’Ucraina,  è  responsabile la Russia di Putin: l’immediatismo occidentale[1] e i bluff russi. Il primo è quello di valutare gli eventi nella loro evoluzione a corto, cortissimo termine e farsi trascinare emotivamente troppo tempestivamente, nell’immediato appunto, da azioni sul campo  senza l’adeguato distacco che invece necessita a chi esamina gli avvenimenti internazionali,   per non prendere cantonate, definire invece scenari credibili  e portare i decisori politici verso azioni fondate.

Purtroppo fra gli analisti, l’immediatismo, sovente accompagnato da faziosità e piacere del sensazionalismo, è un virus molto contagioso, la cui riproduzione è dovuta all’eccesso di informazioni, con  vettori di trasmissione quali il desiderio di arrivare prima sul pezzo, con la presunzione di aver compreso già tutto di quanto avviene e avverrà. Più che un peccato di superbia – veniale per un buon analista – l’immediatismo, che è sempre distorsivo, gli può risultare fatale, un vero e proprio peccato mortale. E lo si è visto in questi giorni, con il ritiro delle truppe russe da Kherson: le immagini di giubilo degli ucraini, più che comprensibili, hanno fatto fluire fiumi di inchiostro circa la fine della guerra in Ucraina, non solo nei commenti di giornalisti ma anche di analisti, spesso confondendo tattica e strategia[2],  dimenticando che la guerra, moderna, ibrida, e  in quel contesto, con una Russia isolata ma decisa verso un conflitto di logoramento del nemico, ha sempre andamenti altalenanti, con momenti di pausa (fattore “inverno”, nuove forze, addestramento e migliore logistica), con inevitabile arretramento, seppur  di fatto solo tattico e non strategico. E poi l’aveva anticipato lo stesso gen. S. Surovikin, il “Generale Armageddon”  al comando dei russi in Ucraina, che avrebbe preso decisioni difficili e facilmente equivocabili,  ossia dal sapore della sconfitta.

Inoltre, i conflitti contemporanei, e lo si è visto in Libia negli ultimi anni ma ancor più ancora in Siria e la stessa Ucraina in questi  mesi, sono processi che si iscrivono in tendenze di lungo periodo, con loro evoluzioni spesso impreviste, con un caleidoscopico e mutevole insieme di alleanze. Insomma, nulla è ancora definitivo nello scenario ucraino. E  la rinnovata tornata di missili russi sulle infrastrutture strategiche ucraine e sulla stessa Kiev, che ancora continua, come pure la morte del vice governatore filorusso di Kherson, K. Stremousov,  ricercato per tradimento dai servizi ucraini, il cui veicolo blindato è risultato crivellato di proiettili, a smentita della versione ufficiale di Kiev circa un incidente d’auto, dando così l’impressione di  una guerra fra bande criminali più che fra eserciti, fanno supporre che parecchio, in Ucraina e  in Russia, stia procedendo come in un altro film da quello narrato da questa parte di mondo. Forse dovrebbe bastare il lapidario  “unlikely”, quell’ “improbabile” pronunciato dal Capo di Stato Maggiore US, Mark Milley, circa una  liberatoria vittoria ucraina a breve, con l’espulsione dei russi da tutta l’Ucraina, compresa la Crimea, per raffreddare gli entusiasmi occidentali, e di parte degli ucraini, di chi aveva già posto la parola “fine” a quella guerra. 

Vi è l’altra trappola, che viaggia a braccetto con il masochistico immediatismo, e che  si risolve nel paradosso dell’Occidente di prendere sul serio le minacce di Putin, drammatizzandole ma nel contempo minimizzandole come propaganda e disinformazione ma, di fatto,  sottovalutando formazione, cultura e vissuto del mondo russo.  E si dimentica di quanto Putin sia la massima espressione dell’arte del bluff, che sottende all’inganno di cui è piena la storia e la pratica sovietica in cui è nato, cresciuto e soprattutto ha servito. In pratica, da sempre, si giudica la Russia, ed ora in particolare Putin, dalle sue dichiarazioni, dalle roboanti minacce di guerre lampo o addirittura nucleari (e quanto è stato  utile sventolare questa minaccia negli ultimi decenni anche per gli Usa e la Nato?), di conquiste territoriali e di vittorie definitive. Ecco che allora, se quegli obiettivi non vengono raggiunti nel brevissimo termine – che è poi il difetto e un assillo esclusivo dell’Occidente - si dichiara la sepoltura militare e politica, e per alcuni anche fisica, di Putin.

Ma comprendere adeguatamente la realtà, privata di immediatismo, e per meglio delineare un quadro analitico per il futuro, è necessario tenere presente  che da sempre, in Russia, come racconta la sua stessa letteratura, la parola espressa dal potere  vale differentemente rispetto all’Occidente. Per quella  vasta regione, che spazia dal cuore dell’Europa all’ Estremo Oriente, e dove da secoli  il potere e il territorio godono di  sacralità, vale quanto affermato dal poeta russo Nikolay F. Sherbina, “Noi - siamo parole europee e comportamenti asiatici”.  Ciò che viene detto da Putin, quindi, là, in Russia, non è solo e sempre riconducibile a mera propaganda bellica, in quanto richiama ad altri valori, da cui impatto e reazioni differenti sulla popolazione. E poi perché, da tempi immemorabili, vi è una sorta di vera e propria “cospirazione delle parole”, di quelle pronunciate da chi là è al potere, e per mantenerlo il più a lungo possibile.  Come quelle definite “falsi amici”, dal suono identico ma dal significato differente che confondono spesso chi fa il traduttore, la “parola data” al proprio popolo, in Russia, che sia da uno Zar, uno Stalin, un Eltsin o un Putin, non porta con sé la responsabilità civica  che possiede nella cultura politica occidentale, in particolare in quella forgiata sulla riforma luterana, dove ciò che viene detto è vincolante, da cui il fondamento della fiducia del cittadino nelle istituzioni dello Stato.  Se in Occidente costui è comproprietario dello Stato, in Russia è da sempre il suo servitore, indipendentemente dall’insegna o da chi è al comando al Cremlino. E il “cittadino” russo diventa così una parola “falsa amica” per l’osservatore occidentale.

Infatti, e per questa interpretazione, chi detiene là il potere può esigere in nome della passionarnost,  ossia la “capacità di soffrire”, che si accetti una guerra anche lunga e sanguinaria. Ed è ciò  che Putin prospetta ed esige dal suo  popolo, il mondo russo, quel russkij mir , per cui l’ideologia  è ora semplicemente “essere russi” (come per i “tedeschi” esserlo ai tempi del nazifascismo) e di cui il concetto di Novorossia è l’equivalente geopolitico. Passionarnost e russkij mir sono quindi cruciali per decifrare Putin, quell’uomo solo al comando che sceglie appositamente una sorta di segregazione, come gli Zar che lo hanno preceduto, nella logica propria di un sistema in cui il sovrano non era vincolato ad alcuna regola. E’ la samoderzhavie, traducibile forse in autocrazia, e che si risolve in un condottiero solitario che, “se si consiglia con qualcuno, allora lo fa con Dio”, come ha dichiarato Dmitrij Trenin del Carnegie Moscow Center[3]. Perché Putin si vede come un moderno monarca, un nuovo Zar, quindi unica fonte della legge, a cui tutto viene concesso per via della sacralità del potere che, nella cultura della sua Russia, è anche solenne destino. Un potere che, in quel sapere profondo e diffuso, difficile da sradicare, non può essere trasparente ed aperto: come le cerimonie religiose ortodosse  si svolgono dietro le porte chiuse dell’altare, così il potere in Russia agisce segretamente. Quel potere, di qualsiasi governante, nuovo o vecchio Zar, è e deve essere separato dal popolo da un’iconostasi, circondata da segreti.

Ma questa autorità, ritenuta sacra e messianica, ha comunque un limite. Come tutti i poteri  necessita di legittimità che, in Russia, dipende dall’ attendibilità dell’autorevolezza dello Zar, che gli deriva esclusivamente dal conseguire vittorie contro i nemici esterni alla Patria. La passionarnost di quel popolo, la sua “capacità di soffrire”, di subire anche gli elevatissimi costi umani di una lunga guerra in nome del  russkij mir, origina dalla capacità della sua guida, del suo monarca, di riportare la vittoria sui nemici della madre Russia:  essere quindi un vero Zar è colui che si legittima solo con l’affermazione sul campo di battaglia. E lo dimostra l’ancora attuale ed ampio rispetto alla figura di Stalin presso quel popolo. Puoi uccidere milioni di russi, ma se ottieni la vittoria sui nemici della Russia, allora sei e  rimani per sempre un vero Zar. Se vieni sconfitto come Gorbaciov in Afghanistan e nella guerra fredda, sei un falso Zar, un gopnik, un “bandito di strada”, e rimani un’ icona di valore esclusivamente per l’Occidente vittorioso, che ha tratto enormi profitti dalla tua resa mentre tu, il Gorbaciov della perestroika e di un’illusoria glasnost, non li hai garantiti a quel popolo che hai traghettato verso “la più grande tragedia del XX secolo”, la dissoluzione dell’Impero sovietico. E un gopnik, per il popolo, non merita l’onore di un funerale solenne, di Stato. Ed è  qui che anche la “vittoria” si rivela una parola “falsa amica” con la corrispondente occidentale.

Le vittorie o le sconfitte dell’impero dimostrano, quindi, se lo Zar è reale o se su quel trono siede un impostore. Ecco perché Putin, per legittimarsi agli occhi, per tradizione  e per cultura del  russkij mir, deve essere vittorioso, come a suo tempo annettendo la Crimea o, in ultimo, le  quattro regioni orientali a maggioranza russa dell’Ucraina. E, comunque, detronizzato o morto Putin, non è scontata la “democrazia”, altra parola “falsa amica”. Come emerge da opinioni espresse dalle sue voci dissidenti e più critiche, di  quelli che Puškin definiva “coloro che il diavolo ha condannato ad essere nati in Russia con un’anima e un talento”, la maggior parte dei russi non sa cosa sia la democrazia[4]; o meglio, ne ha visto screditare i principi dalle bande di burocrati malavitosi degli anni ’90, per cui, per quel popolo, demokratija è caos, miseria e sofferenza, più di una guerra, ed ecco perché se gli si prospetta un futuro democratico, sprezzante ne aggiunge sovente una “r”,  trasformandola in dermokratija,  una “merdocrazia”. La vittoria sul nemico: ecco la “parola data” che conta davvero. Se Putin non può dare la vittoria a quella sua gente, è un falso Zar, un gopnik, un bandito, un usurpatore. E’ l’unica rivalsa per un popolo convinto che  né l’Ucraina né la Nato possono vincere questa guerra. Come a dire, solo i russi possono sconfiggere, ora e sempre, la Russia.



[1] M. Graziano, Soccombere è la grande paura di Putin, “Corriere della Sera-La Lettura”, 4/9/2022, p.3.

[2] https://www.laportadivetro.com/post/l-opinione-dell-esperto-mai-confondere-strategia-e-tattica

[3] https://www.youtube.com/watch?v=HGaYoRvwAqU

[4] M. Shishkin, Russki Mir: Guerra o Pace, Soliera (MO), 2022.

 

La Porta di Vetro, Editoriale della domenica

Chi sono

Chi sono - Global Trends & Security

Analista di politica e sicurezza internazionale, opero attualmente presso enti privati in Israele, Giordania, Stati Uniti e Venezuela. Ho svolto attività di consulenza sul terrorismo per organismi governativi e privati in Libano, Siria, Iraq, Afghanistan, Somalia, Egitto, Sudan, Etiopia, Eritrea, Libia, Tunisia, Niger, Messico e Brasile.

Chi sono - Global Trends & Security

18 febbraio 2022. Uscita del mio volume "Dalla paura all'odio. Terrorismo, estremismo e cospirazionismo", Tangram Edizioni Scientifiche. Trento. " Il volume è il risultato di analisi e operatività sul campo che l’autrice ha condotto negli ultimi due anni circa fenomeni globali legati all’eversione e al terrorismo, sia di matrice islamista jihadista che dell’ultradestra violenta. Vengono analizzati soggetti e dottrine in un contesto di evoluzione delle relazioni internazionali e dei nuovi conflitti ibridi e identitari, in cui il terrorismo è tattica dominante. Sono inoltre delineati i processi, personali e collettivi, di radicalizzazione sia religiosa che politica, da cui derivano educazione e cultura alla violenza. Queste ultime acquisiscono un ampio pubblico attraverso la rete internet, anche nei suoi meandri più oscuri e tramite forme di comunicazione, qui analizzate, che trovano ampio utilizzo da parte delle nuove generazioni di nativi digitali. A ciò si sono aggiunti i toni aggressivi delle più recenti narrazioni cospirazioniste, originate sia da eventi interni a Stati democratici occidentali che da quelli emergenziali da pandemia. A vent’anni dalla paura del terrore proprio dell’11 settembre 2001, si sta procedendo velocemente, quindi, verso un livore generalizzato, a tratti vero e proprio odio, da cui una cultura di violenza politica dai legami transnazionali e che mira all’eversione, con i relativi rischi per la sicurezza nazionale."

  • 29/01/2023 07:51 am
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