Quella che è appena passata è stata la settimana più critica dell’intero 2012 per quanto riguarda i destini delle relazioni internazionali dei prossimi anni, data la rielezione del democratico Barack Obama come Presidente degli Stati Uniti e la nomina, da parte del 18° Congresso del Pcc, di Xi Jinping a Presidente della Cina, come successore, dopo un decennio al potere, di Hu Jintao.
Entrambi gli avvenimenti sono sembrati essere dominati dalle preoccupazioni circa i problemi economici interni, come la recessione e l’enorme deficit pubblico per Obama e il rallentamento della crescita per Jinping, con annesse questioni come la richiesta di riforme interne e la lotta alla crescente corruzione fra gli esponenti politici e i responsabili economici ed industriali cinesi.
La politica estera non è stata, infatti, oggetto di dibattito fra i contendenti alle presidenziali statunitensi: Mitt Romney ha pressoché evitato di parlarne, sebbene incalzato da Obama nei confronti televisivi, facendo credere che sarebbe stato un “presidente isolazionista”, soprattutto nei confronti dell’Europa, ma non riuscendo, in realtà, a mettere d’accordo le diverse anime repubblicane, dai più moderati ai neoconservatori, proprio sui temi più scottanti, dalle primavere arabe, all’Iran e alla Cina. Ciò ha illuso gli osservatori più superficiali che gli Stati Uniti, con l’elezione di Romney, avrebbero finalmente posto fine a interventi militari nel mondo per concentrarsi sui problemi economici, non considerando che la potenza americana è soprattutto una superpotenza militare, da cui dipendono le voci più consistenti della propria economia - dalla ricerca scientifica alla produzione soprattutto industriale - e della propria geopolitica. La scelta isolazionista statunitense era ed è, quindi, pura utopia, frutto di un’incomprensione della retorica propria delle campagne presidenziali statunitensi ma anche di ignoranza nei confronti della loro storia politica e diplomatica. D’altronde, a essere non interventista non è riuscito nemmeno il Nobel per la pace Obama, visto l’aumento sia delle spese che degli interventi militari con covert operations svolte dalla sua amministrazione: circa 740 miliardi di dollari nel 2011 (pari al 4,6% dell’intera economia statunitense) che arriva a 1000 miliardi se si aggiunge la spesa in homeland security, a fronte anche di un innalzamento di interventi con droni e forze speciali in scenari fra i più turbolenti del pianeta, in cui spiccano soprattutto Pakistan, Somalia e Yemen.
Obama, da parte sua, poteva solo giocarsi le carte, gradite a gran parte dell’elettorato statunitense, oltre alla soluzione dell’affare Osama bin Laden, anche quelle del ritiro da due scenari di guerra come l’Iraq e l’Afghanistan, a fronte di irrisolte questioni come la persistente instabilità in Paesi cruciali come la Libia e, anche se in toni minori, l’Egitto, e la sanguinosa degenerazione della situazione in Siria, con annessa impotenza a risolverla da parte degli Stati Uniti – di alleati e di Nazioni Unite - con il rischio della sua trasformazione in un conflitto regionale.
Ciò che sta accadendo, infatti, in Siria e in Medio Oriente, rappresenta per gli Stati Uniti la prima crisi globale senza che essi rivestano una posizione di egemonia, cui fa da sfondo la mancanza di libertà d’azione, dipendendo troppo da un debito estero che finisce per compromettere anche la loro supremazia militare.
Di dibattito, e meno che mai di politica estera, non vi è traccia in alcuno dei congressi del Pcc, siccome quei consessi si risolvono ad essere solo e sempre il luogo di approvazione di decisioni frutto di giochi di potere antecedenti, in cui vengono pianificati e stabiliti i destini politici, economici e militari del Paese, e in cui hanno un peso importante le storie politiche personali dei suoi protagonisti e il rapporto con l’unico partito esistente in Cina. Xi Jinping, infatti, rappresenta, proprio per le vicende personali e dei membri della sua famiglia con il Partito comunista e il grande timoniere Mao Xe Dong, il “principe rosso” e, quindi, la massima espressione di fedeltà e di condivisione di quel mondo; inoltre, si è dimostrato un abile mediatore fra le fazioni riformiste e quelle conservatrici del Partito cinese. Infatti, Xi Jinping ha garantito lo status quo sulle riforme interne, non andando oltre a quello che il Pcc definisce “democrazia intra-partito”.
La mediazione di Jimping fra elementi più estremisti non è cosa da poco, dato che la parola d’ordine su cui ruota la strategia politica futura, e quindi il destino della Cina e del benessere del suo popolo (da cui dipende la legittimità del potere del partito stesso), è quel concetto di wen ding, ossia stabilità, che ritorna continuamente nei discorsi e negli slogan espressi dai rappresentanti di quel Congresso.
E’ un concetto che ha una provenienza militare, poiché è il fulcro della Tang Lang Quan, un’arte marziale fra le più conosciute e diffuse in Cina e in cui la “stabilità della mente” è l’elemento che ne determina la natura vittoriosa. Sembra, tuttavia, un concetto che può avere una valenza strategica di programma più per le questioni interne cinesi (in cui vi sono i forti e ben noti elementi destabilizzanti dovute al veloce sviluppo economico, o alle pretese indipendentiste del Tibet e dello Xinjiang) che per quanto sta accadendo a livello mondiale.
E’ stridente, infatti, il ribadire costantemente quel concetto di stabilità a fronte del caos che imperversa, per i più svariati motivi – anche se non dipendenti esclusivamente dalla volontà della Cina - dal Nord Africa al Vicino Oriente, o alle stesse acque del mar cinese meridionale dove proprio Pechino sta giocando un ruolo destabilizzante per il controllo delle isole Paracel, Spratly, Pratas, Macclesfield Bank e Scarborough Shoal, per lo più desertiche ma dai fondali ricchi di gas (dai 4mila ai 25mila miliardi di metri cubici) al petrolio (30 miliardi di tonnellate), oltreché da acque pescosissime. Il controllo da parte di Pechino di quelle isole, circondate dai Paesi dell’Asean, ossia il terzo partner commerciale della Cina, con quello delle rotte marittime nell’oceano Indiano rappresentano un obiettivo nevralgico per garantirsi lo sviluppo e per soddisfare il proprio bisogno energetico come seconda potenza economica al mondo, appunto, dietro agli Stati Uniti. E per assicurarsi tutto ciò, Pechino non esita a scontrarsi, pressoché quotidianamente, per quelle isole che dichiara essere di sua pertinenza, proprio con quei Paesi (Cambogia, Brunei, Indonesia, Laos, Malesia, Myanmar, Filippine, Singapore, Tailandia e Vietnam) con cui ha scambi commerciali pari a circa 365 miliardi di dollari annui.
Si tratta solo di un primo step di una strategia a più lunga gittata, sia geografica che temporale, e che ha portato Pechino, negli ultimi anni, a costruirsi rapporti economici bilaterali molto complessi che vanno dagli appalti sulle dighe sul Mekong alla costruzione del porto militare di Gwadar in Pakistan, sino alla fornitura di petrolio dall’Iran e quanto ad esso connesso - come il veto alle Nazioni Unite per qualsiasi azione bellica contro il regime siriano - e che puntano a garantirsi la tranquillità nei due punti chiave (per alcuni veri e propri talloni d’Achille per la Cina) ossia lo stretto di Hormuz e quello di Malacca, in cui, rispettivamente, passano il 20% di forniture di petrolio per Pechino e l’80% del commercio cinese. Si tratta di quella strategia di “filo di perle” che tanto preoccupa gli Stati Uniti, che nel tempo hanno tentato di contrastare, appoggiando le rivolte popolari a Myanmar e in Tailandia.
Tuttavia, proprio il neo Presidente Jimping, già nel 2009, nel corso di una visita ufficiale in Messico, aveva esposto quella che divenne nota come la “dottrina dei 3 no”: in definitiva, Jimping sottolineava che “la Cina non esporta la rivoluzione, non esporta povertà e fame e non interferisce nelle questioni interne degli altri Paesi”, marcando, con una critica sebbene non esplicita alla potenza statunitense, la direzione esattamente contraria a quella di Washington nelle relazioni internazionali. Ciò era stato interpretato come un atteggiamento xenofobo e nazionalista del nuovo Presidente, anche perché gli aveva immediatamente garantito l’appoggio delle forze revisioniste e più ortodosse all’interno del Pcc. Per chi conosce la storia cinese degli ultimi anni, comprende che quanto detto da Jimping non sia altro che la continuità di quanto intrapreso dalla Cina con Hu Jintao, condito solo dalla solita retorica che accompagna gli incontri ufficiali e che caratterizza lo scontro dialettico fra i due colossi economici.
Il Pentagono, tuttavia, sembra temere una minaccia militare cinese, come affermato nella sua relazione annuale pubblicata nel 2011, in cui veniva sottolineato come Pechino avesse colmato il gap nelle tecnologie chiave, permettendo alla Cina di ottenere quelle capacità considerate da Washington “destabilizzanti” per gli equilibri regionali militari, con il conseguente pericolo di incomprensioni e di errori di calcolo da fare da detonatori a situazioni al limite dello scontro diretto. Ciò che preoccupava il Pentagono era il varo della prima portaerei cinese (acquistata dalla Russia in fase di smantellamento dei mezzi sovietici) e il caccia con tecnologia stealth J20, definito da Washington un game changer, ossia un mezzo in grado di mutare l’approccio alla difesa aerea della regione. A ciò si affiancava anche il timore per un maggior attivismo nelle imprese spaziali e nella guerra informatica, ancora oggi considerata, a tutti gli effetti - ma senza un riscontro provato ed effettivo - la più invasiva minaccia al sistema economico e finanziario statunitense, e occidentale in genere.
Non può essere, però, la potenza militare cinese ad allarmare gli Stati Uniti: è assurdo pensare che Pechino, che investe il 10% in spese militari rispetto a Washington (ossia 90 miliardi circa), e con un gap tecnologico ancora notevole, possa essere quella minaccia militare preoccupante per Obama che, proprio un anno fa, pronunciando il suo famoso discorso in Australia, rendeva pubblica quella che sarebbe diventata la “dottrina Obama”. In quell’occasione, il Presidente poneva l’accento sul desiderio degli Stati Uniti di “scoraggiare” minacce alla pace in quella parte del Pacifico in cui vi erano, per Washington, “interessi durevoli che richiedono una duratura presenza” americana, per cui veniva giustificato il rafforzamento militare statunitense sia in Giappone (nella base di Okinawa) che nella penisola coreana, oltre alle basi in Australia e nuovi rapporti nel sud- est asiatico, in particolare con le Filippine (aiuti militari per 512 milioni di dollari in dieci anni). L’obiettivo era quello di prepararsi ad affrontare le sfide come la proliferazione militare, la sicurezza marittima e la cooperazione nel mar cinese meridionale. In pratica, dopo venti anni, la Cina tornava ad essere il “perno strategico” nella politica estera statunitense. A suo sostegno interveniva, quindi, quel concetto di air-sea battle elaborato dal Pentagono, in cui il contenimento militare di Pechino era affidato a un’intensa attività di sorveglianza del mar cinese meridionale per mezzo di droni, se possibile dislocati nelle isole australiane di Cocos, e gli aerei da ricognizione antisommergibile P8A Poseidon, oltre alle sue Littoral Combat Ships dislocate a Singapore.
Tuttavia, a molti osservatori, il discorso australiano di Obama aveva più i caratteri di manovra di inizio campagna elettorale, dopo che l’immobilismo o la cautela nelle azioni diplomatiche o belliche, dal Nord Africa al Medio Oriente, non avevano prodotto altro che accuse di incapacità a gestire la politica estera di una nazione che, per il suo ruolo di superpotenza e di fronte alle sfide di lotta per la democrazia e di emergenza umanitaria, avrebbe dovuto avere un ruolo più attivo.
Perché, quindi, l’amministrazione Obama si dimostrava così risoluta a intervenire dove non vi erano minacce dirette, quando di fronte a tragedie come quella libica o siriana si limitava a stare in disparte o giocare un ruolo molto contenuto, anche solo diplomaticamente?
La risposta sta solo ed esclusivamente in una interpretazione. La scomparsa delle ideologie ha posto fine anche alla politica come elemento determinante le relazioni internazionali, facendo emergere prepotentemente il ruolo dominante e quasi esclusivo dell’ economia. Se ci sono sfide o guerre – quindi minacce o azioni aggressive queste debbono essere riconducibili alla lotta per garantirsi le risorse, le materie prime, i mercati o il controllo di rotte commerciali, terrestri o marittime, che assicurino quel sostegno all’economia di una potenza come gli Stati Uniti e quanto ruota attorno ad essa, come modello economico e di vita, sociale e democratica.
In quest’ottica deve essere ricondotta anche la guerra al terrorismo e a quella al Qaeda, onnipresente in scenari dove sono in gioco aree ricche di qualsivoglia risorsa mineraria o energetica di cui è necessario impossessarsi (come il Medio Oriente e l’Africa), o rotte commerciali strategiche da sorvegliare (l’oceano Indiano e la pirateria) per mantenere proficui i propri traffici, o addirittura vi siano mercati da conquistare, come l’intera Eurasia, con il suo 75% della popolazione mondiale e la sua ricchezza fisica, dato che il 60% del Pil mondiale dipende dalle sue imprese e da quanto risiede nel suo sottosuolo, ossia i tre quarti delle risorse energetiche conosciute.
Chi controlla l’Oceano Indiano, controlla quindi l’Eurasia, con annesso il Medio e fino all’Estremo Oriente, dove a spiccare su tutti, economicamente, non è certo più il vecchio alleato, ossia il Giappone, ma la Cina che ha fatto del rapporto con l’Africa e l’America Latina – passando attraverso alleanze pericolose, come quelle con l’Iran − un legame privilegiato fra economie sud-sud tali da minacciare il modello capitalistico di stampo occidentale, in sofferenza per i suoi eccessi finanziari e le sue divisioni politiche, limitative per qualsiasi tentativo di soluzione di uscita dalla crisi. Se la Cina è, quindi, il nemico – soprattutto per l’amministrazione Obama – non lo è certamente dal punto di vista militare ma solo perché è diventata un forte polo indipendente e vitale per l’economia mondiale e, di conseguenza, per la geopolitica.
Ne deriva che, sebbene non espresse chiaramente, le priorità per l’amministrazione Obama sono state - e vi sono i presupposti perché rimangano tali – da un lato il contenimento cinese in centro Asia e nell’oceano Indiano, e dall’altro l’accerchiamento dell’area più problematica, ossia quel Grande Medio Oriente che parte dal Marocco e raggiunge il Pakistan.
Ed è in questa strategia, già antecedente a Barack Obama ma che ora assume i caratteri di vera e propria emergenza, che si inseriscono quegli elementi di instabilità o di caos che hanno sconquassato, di recente, realtà come quelle del Nord Africa (dalla Libia all’Egitto) che, a loro volta, si sono agganciate a quelle decennali nel Vicino Oriente (come il conflitto israelo-palestinese e quello iracheno) o più recenti, come quello siriano o le repressioni di Yemen e Bahrein, fino a raggiungere il Pakistan, in cui l’unica certezza che emerge, in quel mondo all’apparenza antico ma in continua e turbolenta evoluzione, è l’instabilità politica e sociale. Essa, infatti, finisce per esprimersi in forme estreme di fanatismo religioso, facile strumento da manipolare per ottenere quella giusta tensione che impedisce a quei Paesi di raggiungere una stabilità che risulterebbe a tutto vantaggio proprio della Cina e dei suoi tentativi di instaurare, come ha fatto con l’Iran, rapporti amichevoli e di sostegno, soprattutto nella fornitura di gas e di petrolio.
Non è un caso, infatti, che a cingere l’oceano Indiano sia un arco di Paesi islamici in cui da decenni sono presenti minacce estremiste più o meno marcate, dall’Afghanistan alle Filippine, che richiedono interventi militari, più o meno efficaci, con un unico paese a supporto dell’Occidente, ossia un’India che, sebbene annoverata fra quei Brics, è per alcuni osservatori più attenti, come lo scrittore Siddharta Deb, un bluff, con zone rurali al collasso, il 40% di bambini che soffrono di denutrizione e una società in ebollizione, con le sue contraddizioni, la mancanza di democrazia e una potente élite non in grado di comprendere le esigenze di una classe media che sta scoprendo – anche lì - lo strapotere della finanza a scapito di un’economia reale che potrebbe distribuire più ricchezza e far diminuire le ansie per il futuro dei propri figli. Insomma, una situazione non rosea che rischia di esplodere perché detonata dalle molteplici contraddizioni proprie di un Paese a metà strada fra Occidente e Oriente, e che si è scollato dal proprio passato perché inebriato da improvvisa ricchezza.
Ecco che emerge con tutta la sua importanza, il delicato rapporto fra Stati Uniti e Cina, ossia le due grandi potenze economiche in grado di influenzare energicamente realtà regionali tanto vaste quanto strategiche come l’Asia Centrale, il Medio Oriente o appunto l’Africa. Come affermato più sopra non si tratta più di conflitto ideologico: la Cina non può e non potrà mai sostituire l’Unione Sovietica della guerra fredda. Proprio la fine di quel conflitto, ha fatto emergere altri attori che cercano una loro autonomia senza più guardare l’appartenenza ideologica o attendere ordini da Washington o Pechino, e meno che mai da Mosca, perché non è più la condivisione di progetti politici (e militari) a dettare principalmente le regole del nuovo gioco, quanto quella ricchezza di risorse che permette di sostenere una crescita che attira capitali, anche stranieri, e favorisce lo sviluppo di aree rurali che non hanno ancora ritrovato quel benessere che permette di garantire un futuro migliore alla propria discendenza. E’ un quadro tragico che non si riferisce, però, alle campagne cinesi, quanto a quelle vaste aree rurali degli Stati Uniti più colpite dalla crisi economica di un Paese con un debito pubblico di oltre 16 mila miliardi di dollari, in gran parte in mano alla Cina.
Ecco che il discorso di Obama di concentrarsi sul debito non può avere una connotazione esclusivamente interna ma riporta a livelli propri delle relazioni fra questi due Paesi, con le problematiche accennate brevemente in questo lavoro, e a quel legame a doppio filo con Pechino, da cui gli Stati Uniti dipendono per le iniezioni di debito estero e che impedisce a Washington libertà d’azione anche militare. Perché quanto affermato sino ad ora proprio dalla amministrazione Obama riguardo al problema cinese e all’Estremo Oriente non può che risolversi ad essere romantiche velleità di dominio, dato che pesa enormemente un debito così elevato.
Non è un caso che è proprio sull’economia che si sta combattendo una guerra aperta fra Stati Uniti e Cina: nei passati 4 anni l’ amministrazione Obama, all’interno del Wto, ha aperto con Pechino più controversie commerciali che negli 8 anni dell’amministrazione di G.W. Bush. Secondo alcuni osservatori questo scontro non potrà che esacerbarsi ora che Obama dovrà “ripagare” i voti decisivi per la sua rielezione a Stati come Ohio, Wisconsin e Michigan, ossia quelli in cui le produzioni industriali, come quella delle automobili e del fiorente mercato dei pannelli solari, stanno subendo le conseguenze più deleterie dei bassi prezzi della componentistica made in China. Certamente Obama sarà costretto a nuove e più incisive restrizioni economiche alle importazioni da quel Paese.
Non da meno Obama sarà costretto ad operare a livello internazionale al fine di contenere i rapporti commerciali fra Pechino e Teheran, per allentare quel sostegno cinese che permette all’Iran di avere mano libera nella sua politica nel Vicino Oriente, in cui l’embargo gioca un ruolo determinante ma non è sufficiente a smorzare l’appoggio iraniano alla Siria o a quelle piccole ma irritanti rivolte degli sciiti che tanto turbano la quiete di emiri e regnanti sunniti nella Penisola Arabica.
Non è neppure pensabile che gli Stati Uniti possano agire unilateralmente: non basteranno di certo 4 anni di amministrazione Obama, anche se, ed è auspicabile, saranno essi pacifici – ma i segnali che provengono da Israele, Gaza, Siria e Libano stanno andando in tutt’altra direzione – per concentrarsi sui problemi interni e riordinare e sanare i propri conti. L’emergere di potenze regionali, anche se limitate ma determinate, come Iran, Israele, Qatar e anche il nuovo Egitto, rappresenta la testimonianza più evidente di uno scacchiere molto più complesso di un tempo, in cui non è più pensabile l’azione unilaterale autonoma statunitense o addirittura l’astensione e l’immobilismo diplomatico che hanno dominato gli ultimi due anni di mandato di Obama. Anche il ricorso a una collaborazione internazionale attraverso un sistema a rete, ossia fra alleati, appare problematico dopo la lunga, sanguinosa e snervante esperienza irachena degli anni di Bush, a cui è seguito un ritiro poco glorioso e il permanere in quel Paese di una situazione di grande instabilità.
Forse, proprio per questi risultati, servirebbe alla nuova amministrazione statunitense apprendere dall’antagonista cinese quell’approccio di wen ding o stabilità fatto proprio da Xi Jinping e che, pare, sia subentrato al concetto di “armonia” degli anni di Hu Jintao. Ma sarebbe necessario un cambio radicale di approccio alle relazioni internazionali e, in particolare nel confronto economico e militare, che non può appartenere alla cultura competitiva propria del mondo occidentale. Stabilità e caos, crescita e crisi, saranno quindi gli elementi contrapposti che faranno da sfondo alla politica interna e internazionale di queste due grandi potenze rivali, in cui l’ossessione affannata del breve periodo, propria della cultura economica e finanziaria occidentale - e che è finita per influenzare anche l’ambito militare - si oppone alla cautela della pianificazione di lungo periodo e di ampio respiro propria della Cina ex comunista.
Quanto l’una apprenderà dall’altra, mutando così il proprio approccio e la propria natura, e quanto sarà permesso loro di fare, saranno le sfide principali dei prossimi anni e per le due nuove Presidenze che hanno avuto l’investimento ufficiale proprio in questi giorni. Di certo il conflitto siriano e i venti di guerra che stanno scuotendo, nuovamente, il Vicino Oriente allontanano sempre di più la possibilità di realizzare l’approccio cinese di stabilità a favore di quello del caos, tipico occidentale. Quanto però l’Occidente, Stati Uniti in testa, sarà in grado di sopportare gli effetti del suo criterio, e di tutto quanto ne deriva, ossia le turbolente relazioni fra gli Stati del Vicino Oriente e del Nord Africa, o di quel che saprà fare per uscire dalla sua più grave crisi economica del secondo dopoguerra, sarà una sfida che l’antagonista cinese e quanti ruotano attorno ad esso staranno ad osservare con quell’attitudine a risolvere i conflitti senza combattere che è propria di una cultura militare che fa della “stabilità della mente” il fattore strategico vincente.
11/11/2012
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