Lo Yemen non interessa a nessuno. Scrivere di quel Paese è quasi una perdita di tempo: o almeno, questa è la sensazione quando si cerca di capire attraverso quanto divulgato dai media, quel che sta succedendo, da anni, in una delle nazioni più povere del mondo arabo e, da tanto tempo, anche in balia di guerre civili e pseudo-rivoluzioni.
Lo Yemen non ha una ricchezza petrolifera rilevante da attrarre grandi investimenti stranieri; non è percorso da reti strategiche di gasdotti o oleodotti; e nemmeno è gestito da uno sceicco o da un raiss con pretese di leader del mondo arabo o musulmano, in grado di disturbare il quieto vivere dei propri vicini. Insomma, a prima vista, solo un luogo dalle attrattive turistiche, come la sua bellissima capitale Sana’a, diventate però troppo pericolose, negli ultimi anni, per via dei sequestri di persona di incauti occidentali in grado di fruttare, a bande di delinquenti comuni, grandi introiti con i riscatti per la loro liberazione.
I mass media hanno cercato di farlo assurgere agli onori delle cronache parlando di una rivoluzione yemenita, sulla scia di quella “primavera araba” che, con stentato effetto domino, sarebbe arrivata fino a questa punta estrema meridionale della penisola Arabica. Una generalizzazione pericolosa di un fenomeno dai tanti aspetti oscuri e dalle innumerevoli manipolazioni mediatiche, che dimostra quanto i fatti accaduti in Tunisia, Egitto, Libia, Bahrein, Siria e anche in Yemen siano presentati solo all’occorrenza, per poi essere lasciati in disparte e riapparire ogni qualvolta fa comodo al carosello mediatico occidentale.
Ma in Yemen si combatte, e anche duramente. In Yemen vi è anche la guerra degli Stati Uniti ad al Qaeda, e fa molte vittime, quasi come in Pakistan; in Yemen vi è una emergenza umanitaria per 5 milioni di persone (un quarto della sua popolazione) dovuta a carenze alimentari e sanitarie. E’, infatti, il secondo paese al mondo con il più alto tasso di malnutrizione cronica; solo l’Afghanistan sta peggio. A queste vittime, si aggiungono quelle detenute, torturate o addirittura scomparse, in seguito alle dimostrazioni antigovernative iniziate nel 2011.
Eppure, di questo Paese non si hanno che notizie frammentarie, solo bollettini che avvisano dell’uccisione di supposti capi di al Qaeda nella Penisola Arabica (AQAP) attraverso i droni che Cia e Pentagono utilizzano su vaste aree con il benestare del governo centrale. Eppure, in Yemen la situazione è ben più grave di quanto viene diffuso.
La gravità della situazione in cui si trova lo Yemen è proporzionale all’importanza dell’unico fattore che fa di quella nazione una fra le più strategiche del vicino Oriente così come dell’Africa, ossia la sua posizione geografica. Lo Yemen non ha nient’altro da offrire che la strategicità della sua ubicazione in uno degli scacchieri più importanti delle relazioni politiche ed economiche internazionali.
E’, infatti, una realtà che fa ben comprendere quanto sia fondamentale la conoscenza della geografia per capire quanto accade in quel Paese e soprattutto del perché accade.
Lo Yemen è, infatti, una propaggine che, a meridione della penisola Arabica, affacciata sul Golfo di Aden, all’estremo margine settentrionale dell’oceano Indiano, e allo sbocco del canale di Suez su quell’oceano, si insinua, come un grande corridoio, verso l’Africa orientale. E attraverso questo territorio passano flussi commerciali in parte proibiti, dal vicino oriente all’Africa e viceversa, dagli introiti economici e finanziari molto proficui ma soprattutto decisamente illeciti.
Sulle acque antistanti allo Yemen passa tutto il traffico commerciale marittimo che, attraverso Suez, raggiunge l’Occidente o l’Estremo oriente. Controllare la sicurezza di quella porzione di mare significa, in termini prettamente mahaniani, controllare l’economia e il commercio di mezzo mondo, e quello che ne consegue. Sono, però, anche le acque antistanti alla Somalia, oltre all’Eritrea e all’Etiopia, difficili da controllare e che invogliano ad azioni illegali.
Dal traffico di esseri umani a quello delle droghe, lo Yemen è un’area di transito e una tappa forzata per le bande criminali che operano dall’Africa orientale o dal Centro Asia in movimenti economici dalle valenze finanziarie milionarie. L’instabilità interna, a cui il governo centrale dopo le elezioni presidenziali, non ha ancora saputo contenere, favorisce l’espandersi dell’azione criminale, già comunque presente ben prima dei tumulti di piazza.
A tutto ciò va ad aggiungersi il pericolo al qaedista e la guerra degli Stati Uniti a quell’organizzazione terroristica nell’ottica di difesa degli interessi nazionali statunitensi. Non è un caso che a Guantánamo gli yemeniti detenuti erano fra i più numerosi, 116 su 779, un primato di appartenenza diviso con gli afghani e i sauditi.
La povertà di questo Paese (con un Pil da 30 milioni di dollari annui per una popolazione di 24 milioni di persone, di cui il 43% vive in estrema povertà), unito alla giovane età media della sua gente (18 anni), per il 50% analfabeta e con il 35% di disoccupati, fanno dello Yemen un’area di facile arruolamento per i più svariati gruppi armati e terroristici.
Proprio dallo Yemen, stando a fonti del Pentagono del 2009, agirebbe l’AQAP, dopo la fusione fra al Qaeda in Arabia Saudita e quella dello Yemen (AQY) che, da allora, da locale è diventata regionale, con capacità operative globali; l’AQY era già stata individuata come responsabile dell’attacco , nel 2000, alla USS Cole. All’AQAP , invece, appartenevano Nidal Malik Hasan, autore dell’uccisione di 13 militari della base statunitense di Fort Hood (2009) e Faisal Shahzad che, nel 2010, tentò un attentato dinamitardo a Times Square.
L’obiettivo di AQAP è quello di creare un califfato islamico nella penisola Arabica, cancellando l’influenza occidentale sui governi considerati “apostati” e sostituendoli con nuove entità istituzionali operanti esclusivamente attraverso la sharia. Da tutto ciò, quindi, derivano le inevitabili preoccupazioni delle dinastie attualmente al potere nella regione, culla dell’Islam, che preferiscono delegare a monarchie laiche il governo dei loro regni e limitare il ruolo dei vertici religiosi alle sole pratiche di fede e alla gestione del sociale, ben distanti, però, da qualsiasi altra attività politica e di governo.
La presenza e l’azione di AQAP, quindi, non sono solo da intendersi come una minaccia terroristica alla sicurezza degli Stati Uniti quanto, invece, una realtà decisamente destabilizzante uno status quo che non può ottenere il gradimento di chi già controlla la regione arabica.
Il gen. Petraeus, nel 2010, allora a capo dell’ US Central Command, ottenne 150 milioni di dollari per l’assistenza alla sicurezza yemenita, il doppio di quanto già stanziato nel 2009. E da allora la guerra alle cellule terroristiche al qaediste in Yemen si è intensificata attraverso l’invio di consiglieri per la sicurezza, di forze speciali e di intelligence, ma soprattutto con le uccisioni mirate, attraverso l’impiego di droni, di appartenenti a quella rete terroristica. In tre anni vi sono state una trentina di operazioni e l’uccisione di 250 uomini considerati militanti al qaedisti.
L’azione più famosa e di grande impatto, sia mediatico che sull’insieme dell’ organizzazione, è stata l’uccisione, il 30 settembre 2011, di Anwar al-Awlaki, cittadino statunitense di origini yemenite, che da quel Paese del Golfo dirigeva l’ azione dell’AQAP; due settimane più tardi, un figlio adolescente di al-Awlaki, anch’egli cittadino americano, veniva ucciso durante un attacco con droni. Proprio l’uccisione di quel ragazzo ha dato l’occasione per un ampliamento straordinario dei poteri del presidente americano: infatti, Obama, con il National Defense Authorization Act, ha decretato il diritto di imprigionare anche a vita cittadini statunitensi e non, presenti all’interno dei confini nazionali, se considerati un pericolo per la sicurezza nazionale, senza alcun processo o giudizio legale. Un atto molto duro, al limite dell’incostituzionalità che pone i civili, non solo statunitensi, come soggetti a provvedimenti propri di leggi militari, poiché trattati come “militanti nemici” anche senza la prova di una loro azione illegale. Il NDAA, tuttavia, non ha sortito alcun effetto e dibattito nell’opinione pubblica americana e mondiale.
L’ultima vittima eccellente, invece, dei droni statunitensi in Yemen è stato Fahd al Quso, fra i più ricercati dagli Stati Uniti, perché considerato l’autore dell’attentato alla USSCole.
L’azione americana, infatti, è andata intensificandosi grazie anche all’autorizzazione, da parte dell’amministrazione Obama, di signature stikes, ossia la possibilità di bombardare con droni anche solo sulla base di informazioni che indichino una “rete di comportamenti sospetti”. In pratica, viene concesso di colpire presunti militanti jihadisti senza più attingere alla lista dei sospettati in mano alle agenzie di sicurezza statunitensi, per il semplice timore di possibile appartenenza alla rete terroristica o perché armati. Una discrezionalità di giudizio che spetta all’ intelligence presente sul luogo ma che rischia di fare errori, con le immaginabili conseguenze: detenere un’arma, infatti, è un requisito alquanto diffuso in tutto lo Yemen che vede uomini girare armati in ogni regione, anche nelle più pacifiche.
L’unico limite posto da Obama ai signature strikes riguarda l’esclusione di alcuni tipi di bersaglio, come i militanti di basso livello e i depositi di armi. Anche questo fatto lascia, tuttavia un margine di discrezione d’azione e di giudizio su persone e comportamenti, difficile da definire e rispettare, facendo aumentare il rischio di errore e attaccare, così, obiettivi civili del tutto estranei alla lotta terroristica.
Nonostante tutti questi forzi per contrastarla, l’ AQAP mantiene santuari in Yemen che le permettono di organizzare, dirigere e anche addestrare per nuovi attacchi. Questo almeno è quanto affermato da fonti di intelligence statunitensi.
A fianco degli sforzi dei droni della Cia e del Joint Special Operations Command per debellare quelle cellule, sul terreno vi è ora anche l’ esercito regolare yemenita che, con azioni di vera e propria guerra porta a porta, si confronta quotidianamente con militanti al qaedisti del gruppo armato Ansar al Sharia – fondato dal braccio destro di Osama bin Laden, Nasir al Wuhayshi - che supportano anche forze secessioniste e indipendentiste del Sud del Paese. Nella città meridionale di Zinjibar, controllata dai jihadisti da oltre un anno, vi sono state vittime per entrambe le parti nei recenti scontri che hanno visto l’impiego anche di artiglieria pesante. Non è un caso, tuttavia, che le regioni meridionali di Abyan (di cui Zinjibar è il capoluogo) e Shabwah siano area d’azione al qaedista e con ambizioni secessioniste, in quanto da sempre, nella storia dello Yemen, sono tenute pressoché fuori dagli interventi dei vari governi, sia del Nord che del Sud; interi villaggi lasciati senza acqua, elettricità e scuole, a cui gli appartenenti ad AQAP stanno ora ovviando con un’organizzazione politica e sociale che ricorda quel che un tempo era e faceva Hamas nei Territori palestinesi.
Tuttavia, a fronte a tanto attivismo e allarmismo – anche se giustificato – nel contenere l’espansione al qaedista, pochi ricordano che fu, alla fine degli anni ’80, proprio l’ex presidente Ali Abdullah Saleh - al potere dal 1978 e da poco deposto - ad aiutare cellule jihadiste, composte per lo più da reduci della guerra ai sovietici in Afghanistan, a infiltrarsi nel proprio Paese, allora Yemen del Nord, e da lì agire per rendere instabile e sovvertire il governo di quello che era allora la Repubblica Democratica Popolare dello Yemen (PRDY), lo Yemen del Sud, l’unico stato arabo e musulmano autoproclamatosi comunista alla fine del controllo inglese nel 1967.
Il crollo dell’Unione Sovietica, da cui l’interruzione del suo sostegno finanziario, indebolì in quegli anni l’allora Yemen del Sud, tanto che si dimostrò fatale la guerra intrapresa con il Nord, scoppiata nel febbraio del 1994, e che li vide contrapporsi e dilaniare il Paese. In soli due mesi vi furono dai 5000 ai 7000 morti e la vittoria fu delle forze del Nord, composte per lo più da quegli ex combattenti afghani addestrati dalle forze statunitensi in funzione antisovietica in Centro Asia e rientrati allora in patria.
Fu proprio in seguito alla vittoria nella guerra civile, e per via di mosse politiche per controllare la parte meridionale del Paese, ora unito al Nord, che il regime di Saleh iniziò una vera e propria azione di “ri-tribalizzazione” dello Yemen, ossia un ritorno al passato con la restaurazione di vecchie divisioni tribali (che a metà degli anni ’80 le aveva viste contrapporsi nello Yemen del Sud, con migliaia di morti), con i loro nomi e le loro definizioni anche geografiche antiche, a cui presto si aggiunsero i vecchi sceicchi con le loro pretese su terre e privilegi ormai scomparsi, a cui Saleh affiancò nuovi sceiccati, in una logica di divide et impera dell’intera nazione che deve essere compresa per meglio capire quanto sta accadendo ora in quel Paese.
Per oltre 33 anni, il governo di Saleh utilizzò, infatti, le diatribe tribali, fra corruzione e caroselli di alleanze, per indebolire il fronte di opposizione al regime: tuttavia, se nel breve periodo ottenne il risultato sperato, nel lungo periodo lo stato di conflittualità perenne fra tribù gli causò l’alienazione delle simpatie di ampie fette della popolazione yemenita, in particolare nelle zone periferiche meridionali.
Questo ritorno, a metà degli anni ’90, a una suddivisione sociale e geografica tribale, vecchia e che si voleva superata, andava inoltre a cozzare con quel desiderio di unità nazionale che, nel bene e nel male, dalla metà degli anni ’80 aleggiava sullo Yemen. Alla ri-tribalizzazione dell’ intero Yemen si affiancò anche il saccheggio da parte del regime al potere al Nord di tutte le ricchezze del Sud del Paese (soprattutto il petrolio della provincia di Hadramawt, ossia circa il 20% di quello nazionale) a cui seguirono lo smantellamento del sistema statale e delle componenti sociali, affiancate da una dura repressione di quella gente, attraverso l’apparato militare e di sicurezza fortemente in mano alla famiglia Saleh.
In pratica, l’occasione per unire lo Yemen, dopo la guerra civile di metà degli anni ’90, con il regime di Saleh si è trasformata ben presto, in un’ ulteriore forma di frammentazione sociale ed economica che ha impedito al Paese di progredire e soprattutto ha posto le basi per alimentare ulteriormente ed esasperare, nell’ odio e nel rancore, le contrapposizioni politiche e religiose da sempre presenti, sia nell’Islam che, per quel che ci riguarda ora, in quella nazione.
Lo stato di allerta e di emergenza per la sicurezza nazionale yemenita sembra, infatti, dovuto ora non tanto alla minaccia al qaedista, che è fortemente presente e opera a sud del Paese in unione con forze secessioniste e indipendentiste, e di cui si ha notizia dai bollettini del Pentagono, quanto al radicato antiamericanismo degli Huti (sciiti zaidisti), della regione settentrionale di Sa’ada, al confine con l’Arabia Saudita, in lotta da alcuni anni con il governo di Saleh; costui sarebbe colpevole, secondo gli Huti, non solo del sottosviluppo economico della loro regione, dello smantellamento del patrimonio culturale e religioso zaidista, ma soprattutto della penetrazione in Yemen di attivisti salafiti-wahabiti appoggiati dall’Arabia Saudita.
In tal modo, nello Yemen degli ultimi tre anni si è venuto a creare un vero e proprio accerchiamento del governo centrale di Sana’a, con gli Huti al Nord e al Qaeda al Sud.
A parte, tuttavia, il fattore jihadista di al Qaeda – il cui spettro, secondo alcuni analisti, sarebbe stato agitato da Saleh per ottenere maggiori finanziamenti statunitensi per la difesa del suo regime - in Yemen sembra ripetersi così un copione già visto più volte nel corso dell’ultimo anno, dal Bahrein all’Arabia Saudita: si tratta di rivolte, sulla scia della “primavera araba” ma oscurate dai media, che di fatto hanno visto soccombere gli sciiti di quei Paesi (in Bahrein sono la maggioranza) sotto la dura repressione dei loro governi, in mano a dinastie monarchiche, sunnite, timorose di una deriva radicale islamica dei loro Paesi dopo quelle rivolte e con il rischio di godere dell’alleanza e dell’appoggio dell’Iran.
Ciò che si sta ripresentando in Yemen è, in definitiva, quel confronto fra ali estreme del sunnismo e dello sciismo che, però, ha poco a che vedere con le consuete divergenze, all’interno dell’Islam, nelle interpretazioni dottrinali e nelle pratiche culturali; è troppo riduttivo relegare quanto sta accadendo nella penisola Arabica allo scontro fra sciismo e sunnismo.
Si tratta, infatti, della dura contrapposizione fra due concezioni circa la gestione del potere (islamico moderato o decisamente più radicale) e delle possibili alleanze regionali (Stati Uniti e Israele contro, un tempo la Russia, e ora la Cina) che, dopo la guerra fra Iran e Iraq degli anni ’80, e in particolare dalla prima guerra del Golfo, sconquassano il mondo arabo e quello musulmano, ed in particolare l’area della penisola Arabica.
E’ il brutale confronto, infatti, per la presa del potere, più secolare che religioso, fra il sunnismo salafita-wahabita dell’Arabia Saudita, a cui si è aggiunto negli anni il Qatar, e lo sciismo dell’Iran. Se a tutto ciò si sommano le preoccupazioni per un Iraq del dopoguerra, praticamente in mano agli sciiti, e per il rafforzamento del potere degli hezbollah nel Libano, passando attraverso la guerra in Siria contro un Assad alawita (ossia una minoranza sciita), emerge un quadro d’ insieme di un grande gioco di influenze fra queste potenze regionali, i rispettivi sostegni internazionali, e il futuro della regione mediorientale e del golfo Persico. Il tutto viene ridotto, nelle analisi dall’approccio superficiale, al semplice contrasto tra sciiti e sunniti o alla guerra contro al Qaeda.
La libertà di quei popoli e la loro lotta per la democrazia non interessano a nessuno, se non all’occorrenza; il confronto è, infatti, a livelli più alti per più alti giochi di potere, e che vedono la contrapposizione fra potenze regionali, con i rispettivi interessi politici e di dominio su quell’area strategica, che vanno ben oltre quelli economici e finanziari a cui si rifà solo e sempre, penosamente, il mondo Occidentale.
Nello Yemen martoriato e in emergenza umanitaria, gli Stati Uniti intervengono militarmente, quindi, non solo contro una minaccia terroristica al qaedista alla loro sicurezza, ma contro le forze sciite, come quelle degli Huti, considerate corrotte dal governo centrale e anche per questo forze di opposizione al regime. Il timore statunitense è dato dal fatto che costoro, contrastando, con l’aiuto di Teheran, l’influenza saudita, wahabita-salafita, in quella parte più estrema della Penisola Arabica, possano portare a destabilizzare una zona strategica per gli interessi statunitensi ed occidentali in Medio Oriente e in Africa orientale.
E’ necessario, infatti, chiedersi come possa una semplice tribù – in quel paese fra i più poveri della regione - decuplicare le proprie forze militari nel giro di due anni, passando dai 10mila appartenenti, appunto nel 2009, ai 100mila del 2011, se non con l’aiuto, si suppone, di una potenza come l’Iran. Solo nel 2010 i suoi guerriglieri catturarono 130 postazioni militari regolari yemenite, appropriandosi di armi e munizioni con cui continuano ancor oggi la loro guerra contro il governo centrale, ma anche contro la stessa Arabia Saudita vista la cattura di 2 basi militari al confine fra i due Paesi e l’attacco con missili Katiusha del porto saudita di Jizan.
Questi fatti hanno deciso gli Stati Uniti per un incremento dell’ impegno militare nelle aree abitate dagli Huti, sia con raid aerei che con l’invio di forze speciali e di intelligence solo per contrastare la minaccia alla stabilità di quel Paese e dell’Arabia Saudita e non certo per la lotta al terrorismo al qaedista. Attraverso raid aerei di forze governative, e con l’appoggio statunitense, già nel 2010, gli Huti subirono la devastazione di oltre 20mila case e l’uccisione di 2300 civili.
Tutto ciò, per molti yemeniti ha significato, tuttavia, l’appoggio degli Stati Uniti all’azione di repressione del vecchio regime di Saleh contro ogni forza e forma di opposizione al suo governo, alimentando così ulteriormente lo spirito antiamericano in quella parte di mondo. A rafforzare questa convinzione sono inoltre intervenute le elezioni presidenziali del febbraio 2012 che hanno portato al potere – e non poteva essere altrimenti essendo l’unico candidato – Abd Rabbuh Mansour Hadi, fortemente voluto dall’amministrazione Obama e dalle monarchie dei Paesi del Golfo.
Ecco un’altra occasione persa per gli Stati Uniti, e l’Occidente in generale (e c’è da chiedersi se volutamente), di intervenire pacificamente per cambiare la direzione di un gioco strategico molto importante ma che si sta rivelando estremamente pericoloso e cruento. La carenza nella comprensione di dinamiche fra attori e poteri locali, come le tribù, e l’esasperazione della conflittualità fra costoro e il governo centrale, anche utilizzando le divergenze religiose, ripropongono un copione fallimentare già visto in Iraq, in Afghanistan ma anche in Pakistan: una truce lotta per il controllo strategico di un’area geografica cruciale per innumerevoli obiettivi economici e finanziari camuffata da lotta al terrorismo e alle cellule di al Qaeda.
Lo Yemen, pedina fondamentale dello scacchiere mediorientale e anche africano, da possibile postazione strategica filoccidentale – altrimenti che senso avrebbero i lauti finanziamenti statunitensi per la sua sicurezza - rischia, per l’antiamericanismo crescente a causa dell’azione militare di Washington, di postarsi pericolosamente nell’area di influenza iraniana, o comunque anti-occidentale.
E che lo Yemen sia strategico per l’Occidente anche al di fuori del territorio della penisola Arabica, ed in particolare per il controllo del Corno d’Africa a ovest e per il contenimento dell’Iran a est, lo dimostra l’impegno militare statunitense nella sua isola di Socotra, a 350 km dalla costa yemenita e a 300 da quella somala; stando a fonti di intelligence israeliane – anche se non confermate, ma mai smentite - 50mila militari statunitensi sono stati dislocati, a inizio 2012, fra quell’isola e quella omanita di Masirah (più vicina allo stretto di Hormuz), in chiaro posizionamento strategico in vista di un conflitto con l’Iran. Alla notizia del permesso accordato dall’allora presidente Saleh a questo dislocamento militare statunitense in cambio di un visto per recarsi negli Stati Uniti per visite mediche, inevitabile che il sentimento antiamericano e antioccidentale sia salito a livelli mai visti prima nella storia di quel Paese. A nulla sono serviti le smentite da parte yemenita e il silenzio stampa da parte statunitense.
Si tratta di un altro capitolo, forse il più importante, che spiega il comportamento statunitense e i tormenti interni dello Yemen. Il tutto va a inquadrarsi nella logica della riconquista dell’Africa, partendo dalla sua regione orientale, il controllo delle rotte che dal mar Arabico e il Golfo di Aden raggiungono il mar Rosso e da qui il Mediterraneo, e che toccano Paesi come Somalia, Etiopia, Eritrea, ma anche Sudan e Egitto, ossia quella parte di “area operativa” la cui sicurezza e la stabilità sono fra le priorità dell’Africom. Un capitolo complesso della storia contemporanea, politica e militare, che necessità più che mai di una conoscenza geografica che supera quella economica, stretta in rigidi parametri che si rifanno alla disponibilità o meno di idrocarburi di quelle nazioni.
In Yemen non si sta combattendo e morendo per la democrazia, la libertà e il progresso di quella gente e nemmeno per una minaccia al qaedista alla sicurezza mondiale, ma si sta giocando, sui destini di quel popolo, una complessa partita fra potenze locali e internazionali, da cui dipenderanno le sorti future di una grande fetta di Africa e dell’intero Medio Oriente. L’importanza di quanto sta avvenendo in Yemen è dato dal silenzio stampa su qualsiasi forma di informazione e di analisi di quanto sta accadendo, salvo poi accorgersi che è in atto un’ulteriore emergenza umanitaria e correre ai ripari, con ipocrita generosità, per tentare di riparare alle tante rovine dovute a meri calcoli strategici colmi di incompetenza e di fanatismo bellicoso.
18/5/2012