Una delle peggiori trappole in diplomazia è fare dichiarazioni senza dare un seguito con azioni utili e concrete. Se poi in ballo ci sono guerre, soprattutto se complesse come quelle attuali, dove ad avere un ruolo tattico importante sono attori non statali, queste azioni utili sono le uniche a consentire un’exit strategy percorribile per rimanere credibili. Altrimenti si peggiora situazioni già gravi, ma soprattutto si perde credito e potere. Ne è una prova quanto accaduto agli Usa e alleati in Afghanistan e di come la decisione americana di ritirarsi dal conflitto, senza aver posto solide basi per formare un governo di pacificazione e di unità nazionale, abbia galvanizzato le forze locali nemiche, nel caso i talebani e altre forze islamiste radicali del Centro Asia. Lo stesso sta accadendo in Yemen, nella remota regione a sud della penisola arabica.
Una prospettiva che non piace ai governanti sunniti della regione e, men che mai, a Israele, tutti timorosi di un ampliamento dell’influenza di Teheran nella Penisola all’imbocco del Mar Rosso. Dal 2015, quindi, con il benestare dell’amministrazione Obama, il regno dei Saud è stato il principale supporto – anche attraverso una pesante campagna aerea transfrontaliera – alle forze governative sunnite contro gli sciiti Houthi, in quello che troppo semplicisticamente è stato ricondotto al classico scontro intra-religioso.
La decisione di Biden di togliere il sostegno all’Arabia Saudita era sostenuta da nobili intenzioni, comprendendo come il conflitto avesse ormai creato una “catastrofe umanitaria e strategica”, per cui il ritiro doveva essere considerato come parte del ripristino dell’enfasi, data dalla sua amministrazione, alla diplomazia, alla democrazia e ai diritti umani. Non da meno, la rimozione di Ansar Allah, o Houthi, dall’elenco delle organizzazioni terroristiche aveva lo scopo di facilitare il dialogo diplomatico fra le parti. Tuttavia, queste decisioni, non riflettendo una lettura attenta delle dinamiche interne e in rapida evoluzione di quella guerra, hanno finito per aggravarla nei toni e aumentare il numero dei soggetti in campo. Questo perché la decisione US è stata letta dagli Houthi come un ritiro diplomatico e tattico statunitense ma militare e strategico saudita e, di conseguenza, come un prodigioso cambiamento del rapporto di forze a proprio favore, finendo per influenzare anche altre dinamiche regionali. In pratica, lo stesso copione visto in Afghanistan con i talebani.
Sebbene vi siano contatti diplomatici segreti fra sauditi e Houti alla ricerca, appunto, di una exit strategy – con una mediazione dell’Oman – la guerra di fatto continua con altri soggetti pronti ad approfittare del vuoto US-saudita, fra i quali gli Emirati Arabi Uniti, dapprima alleati dei sauditi, ma decisi ora a sottrarre il controllo dei territori meridionali yemeniti, quelli appunto del Marib, proprio al regno dei Saud, con cui, tra l’altro, già da tempo c’è disaccordo all’interno dell’Opec sulle quote di produzione di greggio. A tal fine gli EAU sono giunti a foraggiare ampiamente il movimento separatista del sud Yemen, il Southern Transitional Council, STC, e Marib, ricco bottino conteso, è diventata il teatro di scontri fra Houthi, STC e forze regolari.
Ancora una volta, quindi, attori non statali sembrano decisi a non mollare la presa e a combattere ad oltranza. E questa è, di fatto, la caratteristica delle guerre moderne, quel contenere al proprio interno differenti soggetti, sovente attori non statali, ognuno con i propri sponsor, ossia aspiranti potenze regionali, pronti a combattere differenti conflitti in quello che sembra un unico, monolitico, grande campo di battaglia. Una sorta di matrioska bellica che era la caratteristica già della guerra siriana e che ora si sta imponendo in varie realtà destabilizzate, dal Vicino Oriente, all’Africa e al Centro Asia. E il conflitto in Yemen, seppur ignorato dai media, è un ulteriore, tragico e sofferto esempio. Le guerre moderne sono ormai puzzle composti da molteplici attori e da interessi complessi, con alleanze a tempo, sovente a geometria variabile che rendono sempre più difficile la comprensione e soprattutto la definizione di una exit strategy, anche solo per una soluzione di tregua. Ecco del perché di in uno stato di conflittualità perenne, a diversi livelli di intensità, di cui abbiamo testimonianza in ampie porzioni geografiche e di cui dovremmo prendere coscienza, ma appaiamo distratti e inavveduti perché quelle guerre sono fuori della nostra confort zone, in quella che è ormai un’esclusiva solo più occidentale.